Il cinema: un’arte patchwork?
Il cinema è l’arte della contaminazione per eccellenza. Succede a tutti gli ultimi, come per i fratelli: a quello che arriva alla fine gli toccano i vestiti di quelli venuti prima. Ma di certo questo fratello non è meno importante degli altri. Il cinema è l’ultima nata delle grandi arti dell’uomo e per questo, tralasciando le ovvie contaminazioni iniziali, dalle quali ha preso forma il suo linguaggio esclusivo - le derivazioni dei mezzi tecnici e stilistici - un prodotto filmico tutt’oggi è fortemente contaminato su più fronti. Appurato questo c’è da dire che non è un mezzo di comunicazione puzzle, ha un suo preciso linguaggio ed è proprio grazie a questo che, spesso, le contaminazioni esterne possono dare modo a queste stesse contaminazioni di essere meglio interpretate, capite, si evolvono. Facciamo un esempio: molte sceneggiature non originali derivano da romanzi editi. Si chiamano adattamenti. Se un adattamento contamina eccessivamente la pellicola, il linguaggio della stessa si fa troppo letterario, con molta voce off, del narratore, e un uso dei mezzi tecnici ristretto a favore di quelli dati dalla parola, i dialoghi. Quando questo non succede però si ha un matrimonio perfetto. Ma quando? Quando il mezzo contaminato contribuisce anche sopra il 50%, aggiungendo e non rimanendo in modalità parassita. Si parla di simbiosi. Il primo esempio che potrei fare è “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” un film diretto da Jon Avnet del 1991, nel quale la narrazione per flashback, l’aggiunta di dettagli palesati in momenti diversi rispetto al libro (il rapporto lesbico che lega le due protagoniste è messo in evidenza sin da subito), ne fanno del film un’opera a sé stante, con una comunicatività addirittura superiore a quella del libro. Un altro esempio è “I Segreti di Brokeback mountain” tratto da un racconto di Annie E. Proulx, di appena 70 pagine che diventano un film di quasi tre ore. Qui il regista Ang Lee ha avuto modo di aggiungere parecchio, pezzi di storia, panoramiche che fungono da descrizione. Ha dilatato tempi e attimi rendendo la storia reale e intensa nel suo svolgersi, nel suo evolversi come tutte le storie d’amore. Ovviamente non è solo la letteratura a contaminare il cinema, tutti i linguaggi lo fanno. Il teatro, primo e vero untore del linguaggio cinematografico, ha proseguito la sua opera attraverso il musical, ad esempio. Casi come “Nine” e “Chicago” entrambi di Rob Marshall, dimostrano che il musical risente ancora di una netta impostazione teatrale, data dalla sua struttura corale, coreografata, dai tempi scanditi dalla musica che invade anche il recitato. Casi eccezionali come “Mulin Rouge!”di Buzz Lhurmannsegnano un punto di rinnovo anche in questo spinoso ambito. Questo musical rappresenta una contaminazione nella contaminazione, per così dire. Infatti altro non è che un film contaminato dal linguaggio del musical, contaminato dal mezzo espressivo del videoclip. Tutto in questo film si fa musicale e astratto, si fonde con l’arte dell’inizio ‘900, è rocambolesco, onirico ma anche terribilmente pop, con le canzoni di Madonna a fare da capofila fino al cameo di Kylie Minogue. La contaminazione non è altro che un mattone sulla strada dell’innovazione, come per i pachwork, si prende roba che si possiede per creare qualcosa di nuovo, che a sua volta catturerà al suo interno altre forme di espressione e contaminerà altri mezzi, considerati minori a volte, come la Televisione o Internet. Tutto è contaminazione e non esiste quarantena per l’evoluzione. Prima o poi tocca a tutti.
1 commento:
concordo pienamente..tutti i tipi espressione artistica si contaminano a vicenda..l'importante e' che un prodotto sia frutto di contaminazione creativa e non scopiazzamento spudorato! nella musica come nel cinema come nel teatro o nella tv!
Posta un commento