venerdì 10 agosto 2007

STEFANO BOLLANI OVVERO TALENTO E SIMPATIA.


di Ilenia Firetto

Bologna, 31 luglio 2007. Piazza S. Stefano.
Sono le ore 18.00 ed io sono in trepida attesa per l’intervista che il Maestro Stefano Bollani sta per concedermi.
Lui è già sul palco, insieme ad Ivano Marescotti, Antonello Salis, Paolo Damiani, Bebo Ferra alle prese con il sound check e le ultime prove dello spettacolo “Pirèta e é lòpp”, la favola di Pierino e il lupo di Prokofjev rivisitata in versione romagnola.
Chi è Stefano Bollani?
E’ un ragazzo di 35 anni, nato a Milano ma cresciuto a Firenze dove si è diplomato al conservatorio nel 1993. Dopo alcune esperienze nel pop con Raf, Jovanotti, Irene Grandi è, a poco a poco, diventato uno dei jazzisti più apprezzati dal grande pubblico, forse per la sua aria da ragazzo scanzonato, per il suo essere così scherzoso con il pubblico con il quale ama improvvisare, per il suo essere particolarmente eclettico, ma soprattutto per il suo grande virtuosismo e per il suo essere brillante.
Questa che vedrò questa sera credo sia la quinta o la sesta esibizione del maestro, ed anche questa volta con una formazione diversa.
I.: Maestro Bollani, hai iniziato la tua carriera accompagnando al pianoforte Jovanotti, Irene Grandi, Laura Pausini, poi …..il Jazz.
Cosa ti ha spinto a dedicarti, anema e core, a questo genere musicale?
S.B.: In realtà ho sempre voluto fare jazz e mi è capitato per caso di fare una tournèe con Raf nel ’93, per caso nel senso che lui mi aveva chiamato perché mi aveva visto nel gruppo di Irene Grandi , quando non era ancora famosa.
Io suonavo le tastiere e per 2-3 anni ho fatto queste cose qua che tu hai nominato, però era una parentesi, avevo 20 anni ed era un buon modo per cominciare a lavorare e guadagnare con la musica, era divertente, perché suonare a Napoli, con Raf e di fronte a ottomila persone era comunque un’emozione, anche se non era la musica che amavo di più.
Nel frattempo, però, io suonavo nei locali di Firenze, suonavo jazz….ho sempre voluto fare quello, poi il termine si è volutamente allargato perché jazz per me, oggi, vuol dire non tanto musica di qualità…quanto musica improvvisata, soprattutto. Non è un genere preciso, ma è un modo di stare sul palco, di prendere la musica, cioè mi piace che tu, tutte le sere, possa fare qualcosa di diverso….può anche voler dire tornare a suonare, un giorno, con Raf, ma di certo non 40 date suonando esattamente le stesse cose.
I.: D’altronde, nel jazz quello che ti contraddistingue è proprio il fatto che tu varii sempre, i tuoi concerti non sono mai identici l’uno all’altro, tutto è affidato all’improvvisazione.
S.B.: Si, ogni sera qualcosa di diverso, con il rischio che una sera venga un concerto bruttino ed un’altra un concerto bellissimo nel senso che non si corre il rischio che ci sia la famosa routine che consente a Raf di fare, più o meno, lo stesso concerto dappertutto.
E’ il concetto di sfida con se stessi che mi piace di più della professione.
I.: Nel tuo libro “ L’America di Renato Carosone ” parli del termine cool, utilizzato per i musicisti jazz ed in generale per i giovani ribelli.
Maestro….non credo che tu possa considerarti un tipo cool, nel senso letterale del termine.
S.B.: Ma se cool, oggi, vuol dire tranquillo, rilassato, uno che prende la vita divertendosi, credo di si.
I.: No, cool nel senso letterale, freddo, distaccato…
S.B.: No, io il termine non lo prendo più in questo senso, cool, per me, è più una cosa figa, forse, gli americani dicono cool per dire “tutto a posto”, “tutto tranquillo”, in un certo senso ha qualcosa a che fare con l’atteggiamento del musicista che improvvisa, perché un musicista che improvvisa deve essere pronto ad accettare il fatto che qualcosa può andar male, che qualcosa vada storto durante l’esibizione, quindi a fare “spallucce”, cioè dire “Ok, questa frase mi è venuta male, adesso ne provo un’altra; è come quello che parla ed improvvisa….bisogna accettare di partire in un modo e dover tornare indietro e ricominciare perché ha deciso di distribuire diversamente le subordinate, soggetto e predicato, bisogna essere pronti, insomma, ad accettare i propri errori.
I.: La bravura, dell’artista, sta, poi, nell’essere in grado di non far notare che quella frase non è riuscita così come la si voleva.
S.B.: Oppure sfruttarla….partire dall’errore per andare avanti.
I.: Come Buscagliene e Carosone, anche tu dai l’impressione, a chi ha il piacere di poterti ascoltare dal vivo, di voler giocare con la musica, di divertirti nel creare i fraseggi con i tasti del pianoforte. E’ questo il segreto del tuo successo?
S.B.: Non vedo perché una persona dovrebbe andare a vedere gente che si annoia mentre fa una cosa, deve pagare un biglietto per vedere l’artista che si esibisce che non solo è noioso, non è tanto questo il punto, ma che faccia una cosa che annoi anche se stesso.
Io mi diverto e non ho problemi a farlo vedere, ci sono musicisti più “timidi”, più pudichi, chiamali come vuoi, che in realtà si divertono molto ma non lo danno a vedere; d’altronde non tutti abbiamo lo stesso modo di esprimere le emozioni, c’è chi ride a bocca spalancata per una battuta, c’è chi fa un semplice gesto con le labbra e magari si è divertito molto.
Per quello che mi riguarda, sono un tipo che esterna abbastanza le proprie sensazioni su quello che accade intorno.
I.: Sei molto prorompente.
S.B.: Si, però non è una cosa voluta, studiata, è un mio modo di reagire alle cose, che vale anche per il resto della mia giornata.
I.: In una tua intervista a JazzItalia, menzioni, tra i maestri del jazz che hanno influenzato il tuo percorso musicale, Art Tatum, Oscar Peterson e Bill Evans.
Ascoltandoti, in questi ultimi anni, nei tuoi concerti, ho avuto la sensazione di rivivere le emozioni del jazz degli anni d’oro, il tuo virtuosismo, la tua tecnica, il tuo essere brillante quando interpreti un brano, fanno pensare che presto tu diventerai l’icona jazz del nuovo millennio (e qui lui giù ad ululare), che tu sarai, per i futuri pianisti, quello che i precedenti citati sono stati per te (ed ancora ad ululare).
S.B.: Ne dubito perché, purtroppo, queste persone hanno inventato delle cose che prima non c’erano, soprattutto Art Tatum e Bill Evans, forse Oscar Peterson è già più un emulo, molto virtuoso, di Art Tatum, però è molto difficile, oggi, inventare delle nuove cose, quello che si fa adesso è miscelare linguaggi diversi, stili e generi per creare qualcosa di nuovo che di solito dà vita a delle cose interessanti proprio attraverso l’incontro tra cose che, magari, sembrerebbero stridere. E’ come per i surrealisti l’incontro su un tavolo di un ombrello ed una macchina da cucire.
Io prendo un basso ed una batteria rock e ci metto sopra un’ arpa, la novità sta proprio nell’idea, postmoderna, di mettere insieme degli strumenti che normalmente non penseresti mai di mixare.
Che proprio, invece, una persona diventi un’icona perché inventa uno stile che tutti copieranno o che diventerà un must cui fare riferimento, mi sembra difficile, non solo per me, ma per quasi tutti.
E’ dura, com’è dura negli altri campi dell’arte, anche se poi, probabilmente, fra cento anni, riguardando le cose che si facevano, scopriranno che c’erano quei tre o quattro….ma al momento è davvero dura.
I.: Navigando sul tuo sito e leggendo i vari articoli su di te, ho potuto notare che non ti fermi mai. Tra un concerto e l’altro, tra un continente ed un altro, riesci a trovare il tempo da dedicare alle persone che ti stanno accanto?
S.B.: Beh, non è facile, bisogna inventare dei sistemi, sono, ancora, in fase creativa, li sto inventando perché il rischio è che tu ti riferisca a modelli sociali vigenti, quindi la famiglia tipo che la domenica dovrebbe stare tutt’insieme o i bambini da accompagnare a scuola o, ancora, la moglie che sta a casa e tu vai in giro a lavorare…ecco tutti questi modelli io e la mia famiglia non li possiamo avere, mia moglie, ad esempio, è sempre via come me.
I.: So, però, che collaborate, anche, musicalmente insieme…
S.B.: Si, ma molto più spesso lei fa le sue cose con Spinetti ( Ferruccio Spinetti, contrabbassista in duo con Petra Magoni ) ed io faccio le mie, per cui bisogna inventarsi dei modelli, bisogna essere aperti, ancora una volta, forse, all’improvvisazione….ed avere molti nonni.
Per il resto, per fortuna, esistono i cellulari, per cui sono sempre in contatto, anche in questo momento, visto che sta vibrando, ma ora lo spengo, con le persone che fanno parte della mia vita, che sono tante poi.
In realtà, sono già tante le persone con cui collaboro musicalmente, figurati, poi, se aggiungi gli amici, i conoscenti…cominciano ad essere tantini ( e qui vien fuori il suo accento toscano! ).
I.: Un aggettivo per definire il pubblico che ti ascolta, tra quello americano, asiatico ed europeo.
S.B.: Io credo che la differenza grossa sia tra quello italiano ed il resto del mondo, nel senso che quello italiano ha una percezione di me abbastanza “completa” perché sa che ho scritto anche un libro, che è uscito solo in italiano….al momento, chi lo sa, sa che ho fatto radio, mi ha visto da Arbore fare le imitazioni, ha letto, magari, il libro su Carosone, mi ha visto molte volte perché ho suonato tanto ed in tante città, Bologna un po’ meno, ma a Torino e Napoli mi hanno visto con quasi tutti i miei gruppi, quasi tutti i miei progetti, per cui hanno un’idea del personaggio, mi hanno sentito parlare etc….
All’estero ho sempre suonato nei festival jazz per cui sono un pianista jazz, ufficialmente, mentre in Italia si chiedono cosa stia facendo, tutt’al più, se mi hanno visto dal vivo, e se hanno ascoltato i miei dischi sanno che ho una vena che loro, magari, definirebbero bizzarra e quindi sono il pianista jazz che fa anche cose stravaganti, ma non avendo letto né il libro né sentendomi per radio e così via, sono già un pochino più “incanalato”, prima o poi capiranno, anzi più o meno lo stanno già, capendo, che in realtà non rientro molto nella definizione canonica del pianista jazz, però, al di fuori dall’Italia, ho un pubblico un po’ più da jazzista.
Invece, qui, il pubblico è più trasversale, c’è gente, che non ha mai sentito una nota di jazz, che viene a sentirmi perché mi ha visto in tv o perché ha sentito parlare di me.
I.: E poi, diciamoci la verità, il jazz è ancora visto come una musica “colta”, “seria”, per alcuni anche noiosa…
S.B.: Si, questo è l’errore di alcuni musicisti che lo presentano così, ma anche del pubblico che, a mio parere, non ha mai visto dei concerti jazz.
La maggior parte dei jazzisti italiani “di punta”, da Fresu a Rava a Trovesi, sono anche molto divertenti, cioè non è che ci si sganascia dal ridere, ma sono molto rilassati, molto cool sul palco.
I.: Da piccolo il tuo sogno era quello di diventare un pianista, in realtà cantante ma hai abbandonato ben presto l’idea. Adesso che, a 35 anni hai suonato con i più grandi musicisti del panorama jazzistico mondiale, Pat Metheny, Enrico Rava, Richard Galliano, Lee Konitz, Paul Motian, per citarne alcuni, la domanda sorge spontanea…dove vuole arrivare Stefano Bollani, qual è il tuo sogno, adesso?
S.B.: In realtà non ne ho, forse ne avevo pochi anche prima perché io mi sono sempre molto divertito nel presente, a fare le cose che faccio quel giorno lì o in quel periodo lì o il progetto che ho da fare pochi mesi dopo, per cui è difficile che io ragioni a sogni nel cassetto tipo il musicista con cui vorrei lavorare oppure che tipo di notorietà vorresti raggiungere o ancora che condizione economica o a che livello artistico vorresti arrivare.
Io mi diverto a fare quello che faccio, non ho quasi mai pensato “vorrei che un giorno mi chiamassero a tal festival, vorrei poter suonare in quella città”, non mi viene in mente di averlo fatto perché la musica, per me, è la prassi quotidiana, è la normalità, avendo iniziato a suonare a sei anni, non mi ricordo neanche quando non suonavo.
I.: Tu suoni per passione, perché ti piace, infatti lasci trasparire molto questo tuo amore per quello che fai, ti diverti ,e tanto, quando ti esibisci.
S.B.: Ma soprattutto per me è normale, è come leggere….è una cosa naturale.
Mi sono reso conto, ci pensavo proprio pochi giorni fa, che io non riesco ad immaginare bene, sarà che forse non ho abbastanza fantasia, come il pubblico percepisca la musica davvero, perché io sono così abituato a percepirla da musicista, cioè da uno che ne ha ascoltato tanta o, comunque, da persona che ha più o meno i “codici” ed infatti mi son detto: “Ma…. ‘sto jazz?. Io faccio questi concerti, in quintetto, improvvisiamo, ma…a tutta questa gente che ci ascolta…boh!...cos’è che gli arriva?”.
Non lo saprò mai, perché ad ognuno arriva una cosa diversa ed il bello della musica è che non è un’arte precisa e didascalica. La parola, a volte, pretende di mandare un messaggio, invece la musica, per fortuna, è vastissima, è più democratica ed ognuno è libero di interpretarla come vuole.
Mi sono, però, anche reso conto che per me è quasi come un linguaggio, come il linguaggio che sto utilizzando, ad esempio, adesso, come quando parlo in inglese o in francese, invece, per il resto del mondo no…è un po’ strana la percezione.
I.: Ed il giapponese? Inizierai a studiarlo?
S.B.: No, non ci provo neanche. Adesso sto iniziando a studiare il portoghese, nei ritagli di tempo, ma il giapponese no.
Si vive una volta sola, devo fare anche altre cose!
I.: Entrando nel privato…se non sbaglio hai un figlio.
S.B.: Due figli, Leone ha otto anni, Frida tre.
I.: Avere te come padre, per loro, sarà uno spasso, si divertiranno da matti.
S.B.: Si, quando mi vedono. Ma i miei figli son tosti, sono molto più seri di me, forse Frida un po’ meno, lei è un po’ più caciarona, Leone, invece, è un bambino molto serio, anzi è lui che mi riprende “papà, smettila…non mi piacciono questi scherzi” mi dice quando lo prendo in giro. I bambini son tosti, sono più seri dei genitori, temo. Non ricordo, adesso, i miei, ma forse anch’io ero più serio di mio padre, prendevo le cose in maniera più seria.
A me, infatti, piacerebbe che mio figlio diventasse più cool, però, sai, ad otto anni, se perdi un giochino non è che puoi prenderla con filosofia, è un dramma e basta.
I.: Ed il loro approccio con la musica? Avendo due genitori musicisti…
S.B.: Leone è già un ex batterista, ha smesso a quattro anni. Ha iniziato ad un anno ed ha smesso a quattro, quando gli abbiamo comprato la batteria vera, ha capito che si faceva sul serio, quindi basta invece Frida canta, ha tre anni ma canta tantissimo, le piace molto la musica però nessuno li forza, ancora una volta è molto naturale e la differenza, rispetto a quando ero bambino io, sta nel fatto che loro hanno già visto tanti concerti.
Io, in casa, non avevo dei musicisti ed il mio primo concerto l’avrò visto ad 11 anni, ci son dovuto andare io altrimenti i miei genitori non mi avrebbero portato a vederli.

Capisco che è arrivato il momento di terminare l’intervista, così mi congedo dal Maestro Bollani, come mi piace definirlo, lo saluto, ma soprattutto lo ringrazio tanto per avermi dato la possibilità di poter conoscere e far conoscere Stefano Bollani, non soltanto come musicista ma anche come uomo che vive nel quotidiano.
E’ rimasto, pur avendo già alle spalle una lunga serie di premi sia in ambito internazionale e nazionale ed encomi da parte della critica musicale in ambito jazz, un ragazzo molto semplice, umile, disponibile, molto cool, come a lui piace definirsi.
Quindi che dire…se non lo conoscete ancora, adesso è arrivato il momento di ascoltarlo e se vi capita di vederlo dal vivo, vi assicuro che non ve ne pentirete.

1 commento:

Anonimo ha detto...

ciao, ho ritrovato questo tuo post per caso, io qualche giorno prima scrivevo questo

http://viarigattieri.blogspot.com/2007/07/pisa-by-night.html

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