domenica 13 dicembre 2009

DOMINO CAFFE'


Chi nasce prima, il genere o la storia?
a cura di Polly

Ho esordito scrivendo un poliziesco, e al momento di pubblicarlo mi sono resa conto che qualcuno avrebbe pensato a me come una giallista. Ora è uscito il mio secondo giallo, ma tra i due c’è stato un infiltrato, una commedia sentimentale, chiamiamola così. Sono sempre partita dai personaggi e dalle storie che mi “raccontavano”, mai pensando in quale genere tali storie potessero rientrare.

La verità è che il concetto di genere mi sta stretto, e pure antipatico. Come lettrice non mi disturba affatto, siamo abituati a ragionare anche per generi, quando parliamo con altri di ciò che leggiamo. Siamo abituati a cercare le diciture sugli scaffali delle librerie. Ma come autrice, sto sviluppando una vera e propria allergia a questa che vorrebbe, per me a torto, essere un’etichetta a priori, e ancor più al concetto di “narrativa di genere”, forma eufemistica per dire “narrativa di serie B” – non s’arrabbino, signori Tolkien e Simenon, a voi e ai tanti altri grandi che hanno creato e arricchito i “generi” tutti riconoscono lo status di voci fuori dal coro.
Ma per noi poveri tapini che siamo nel coro…
Sono una grande sostenitrice dei cassettini della memoria, come ama chiamarli quel simpatico presentatore. Credo che, leggendo, ascoltando, guardando, studiando, abbiamo assorbito talmente tanti archetipi, modelli, formule e meccanismi, che possiamo muoverci nella narrativa anche senza “pensare” a quello che stiamo facendo. Perché ci viene istintivo. Un po’ come siamo in grado di parlare correttamente ma se qualcuno ci chiedesse di recitare la regola di grammatica che abbiamo appena applicato, forse andremmo un po’ in confusione, e qualche definizione apparirebbe quanto meno fumosa. La stessa cosa accade nello scrivere narrativa.
Tempo fa, una ragazza newyorkese laureata in scrittura creativa (già, gli americani – quando si dice che cos’hanno che noi non abbiamo) scriveva su un forum “sono contenta perché, dopo tanta fatica, sono riuscita a esprimere il conflitto in una sola frase”. Mmmm. Dopo qualche secondo di attesa, per vedere se la lampadina si accendeva o meno, rimasta al buio sono sbottata in un silenzioso “so what?” E allora? Perché il conflitto non poteva essere espresso in due frasi diverse, in due punti diversi del testo? Semplicemente dove il personaggio l’avrebbe sputato fuori, o gridato dentro di sé? Non fraintendetemi, non sto difendendo quella “cosa” che forse da ragazzi chiamavamo “scrittura di getto”. Possiamo talvolta correre dietro ai nostri personaggi, alle loro parole e ai loro pensieri al punto di non avere il tempo di inserire le virgolette dei dialoghi, poi ovviamente torneremo indietro a rileggere e limare, bilanciare, tagliuzzare e aggiungere. Nessun testo può fare a meno di una buona revisione, questa è una regola d’oro. Meglio se con l’ausilio di un editor con i fiocchi e i controfiocchi (se mai parleremo di questo argomento a voce, amici, l’espressione che userò sarà un’altra).
Quello che sto dicendo è che se abbiamo bisogno di un’impalcatura prima di muovere i primi passi in una storia, se siamo così timorosi da volere la geometria prima della sostanza, da cercare il canone prima di tutto, da voler per forza creare un’intera trama partendo da una frase da esplodere poi, pezzo per pezzo, in tante altre frasi, perché qualcuno ha deciso che quella è la tecnica da usare, forse non è la nostra storia.
Che deve essere, prima di tutto, “true to life”, fedele alla vita, nelle emozioni e nei sentimenti se non nello spazio e nel tempo. Solo così potremo creare un mondo “possibile” dove altri avranno voglia di trascorrere del tempo. Una persona quando parla non si chiede in quante frasi espone il suo conflitto. Forse non è neanche consapevole che sia un “conflitto”, ciò che la muove in quel momento.
Sono molti gli schemi e i meccanismi narrativi di cui noi autori ci rendiamo conto solo a posteriori, quando ormai sono stati fissati sulla pagina. Mentre scriviamo, siamo “dentro” alla storia, accanto ai personaggi, con i sensi tesi ad ascoltarli, con tutte le nostre consapevoli e inconsapevoli conoscenze. Che creeranno lo scheletro di cui la storia ha assolutamente bisogno senza che noi neanche ce ne rendiamo conto. Se abbiamo davvero le storie dentro di noi, ne possediamo inconsapevolmente anche i meccanismi, che procederanno e cresceranno insieme alla storia come lo scheletro cresce all’interno di un bambino, sostenendolo. Se abbiamo bisogno di iniziare dallo scheletro, quello che facciamo è un gioco di meccano, e quello che creiamo rischia di essere un funzionante ma freddo piccolo robot.

1 commento:

Giulia Lu Mancini ha detto...

Devo dire che questa visione mi trova molto d'accordo, essere dentro la storia quando si scrive al di là di schemi narrativi predefiniti.

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