domenica 30 settembre 2007

DI MAMMA (NON) CE N'E' UNA SOLA


A CASA. 1/2
di Anna Grazia Giannuzzi

L’anno scolastico era iniziato da più di un mese e Fanny, affacciata sul balcone nonostante il freddo, osservava con invidia i bambini del nostro palazzo e di quelli accanto, che la mattina si univano e si sparpagliavano in allegri mini cortei per andare a scuola.
Se non avessi mandato Fanny a scuola avrei violato le norme sull’obbligo scolastico. Se l’avessi trattenuta a casa a lungo, sarebbe comunque dovuta entrare a scuola pochi giorni prima di Natale ed avrebbe avuto, come gli altri, compiti delle vacanze che non capiva.Mi rendevo conto della necessità di non isolarla in uno spazio vuoto di relazioni con persone della sua età, e sia per lei, sia per le sue sorelle mi veniva difficile immaginare i tempi di inserimento lunghi e lenti che avrei avuto con un neonato. Mi rendevo anche conto che per Fanny la mia casa non era ancora la sua casa. Era soltanto un posto comodo e colorato che lei scopriva a poco a poco, frugando in ogni cassetto ed in ogni mobile. Ancora non era la casa in cui desiderare di tornare e mi dicevano di non mandarla a scuola perché avrei ritardato il suo attaccamento ai luoghi della sua nuova famiglia ed anche a noi come genitori. Insomma mandarle a scuola poteva significare addirittura abbandonarle ancora una volta. Ma le mie figlie cosa volevano? Per me era più importante cercare di capire cosa andava bene per loro in concreto e non in quanto “bambine adottate appena rientrate”. Le mie figlie volevano giocare con gli altri bambini, parlare con loro, avere come loro cartelle e zaini e colori e vestiti per andare a scuola. In quel momento le mie figlie mi dicevano se siamo le tue figlie ci devi mandare a scuola come fanno con i loro figli tutte le mamme che noi vediamo qui.
Gli insegnanti accettarono Fanny con semplicità, avevano già una bambina adottata ed altri bambini stranieri.
Sentirli parlare così mi sconvolse.
Non avevo mai pensato a mia figlia come ad una bambina straniera. Anche se io con lei mischiavo italiano e spagnolo nel parlare, lei era un’italiana di cittadinanza, pur conservando la sua nazionalità di origine. Semplicemente, essendo noi italiani, le insegnavamo ad essere italiana. A voler essere sinceri non proprio tutto quello che faccio, e soprattutto mangio, ha come etichetta una bandierina tricolore, poiché ho acquisito diverse usanze nei miei seppur bravi viaggi all’estero, ma fondamentalmente non ho mai nutrito nessun dubbio sul fatto di esser italiana. Tra genitori ed insegnanti ho ben capito ci si comprende poco, ma in alcuni di quelli di mia figlia ho percepito il desiderio di trovare un elemento da cui far partire un dialogo e mi sono impegnata, perché non volevo che complicazioni tra di noi finissero con l’appesantire lei, faticosamente impegnata nel costruirsi un’identità e che non trovava più di nessuna utilità quello che aveva imparato fino ad allora, nemmeno le parole che definiscono le cose che ti circondano. E grazie a dio a me è stata risparmiata la richiesta dell’ecografia o dei vestitini del battesimo e cavolate del genere.
Mentre aspettavo in un’altra aula, Fanny ha svolto da sola un test per capire a che punto era con il programma e, visto che nessuno dei suoi insegnanti parlava lo spagnolo, mi chiedo ancora che cosa si siano detti. Nel contempo ringrazio gli arabi che ci hanno dato numeri che si scrivono nello stesso modo in tutte le lingue latine. Così abbiamo iniziato la terza classe elementare.
La mattina uscivamo insieme, e spesso correvamo perché eravamo sempre in ritardo, ripetevamo le tabelline strada, ridacchiando quando incrociavamo qualche bambino che le piaceva. Racconterò ai suoi figli di quando ho appeso il suo ombrello al ramo di un albero innevato e lei per riprenderselo è salita sulle mie spalle. Ridevamo così forte che se l’è quasi fatta addosso. E quindi addosso a me.
Così sono finalmente entrata nel club delle “Mamme che portano i figli a scuola”, che si trattengono a parlare, si scambiano informazioni e sfoghi, consigli e ricette. Insomma, quelle strane soggette che prima giudicavo delle perditempo parcheggiate in mezzo alla strada, mi hanno accolto nella loro cerchia ed io ne sono stata orgogliosa.
Mia figlia non ha avuto nessun sostegno particolare, a casa io e il padre, a scuola un maestro volenteroso ma senza speciali qualifiche l’aiutava con l’italiano. Mi rendevo conto che doveva essere una fatica immane, ma lui era sereno ed affettuoso con la mia ragazza e, semplicemente ci dava l’impressione, che non ci fossero problemi che non potessero essere risolti con un poco di ripetizioni. Mediatori linguistici o culturali? Forse avrei dovuto chiederli io, ma mi fecero capire che ormai l’anno era iniziato e non era previsto in bilancio o cose del genere e che dovevo parlare con il Sovrintendente o non so chi del polo scolastico. Onestamente non credo che spetti al genitore adottivo immaginare di che cosa possa avere bisogno il proprio figlio che entra a scuola appena adottato. Probabilmente non è nemmeno responsabilità dei singoli insegnanti, nei quali ho anche colto a volte il timore di sbagliare qualcosa e di creare involontariamente problemi al genitore. Ho avuto cioè la percezione, perché è stato difficile parlarne apertamente, che si fossero chiesti che cosa significa essere stati adottati. Credo che la ricerca di questa consapevolezza, lo sforzo di empatia siano altrettanto necessari delle risorse strumentali e didattiche che gli insegnanti richiedono.
Ma ho ben capito che è “la Scuola” a non avere alcuna competenza effettiva sulla questione, tranne poche progettualità quasi futuribili. Ho un’amica che insegna e mi ha fatto vedere che nella programmazione del suo circolo non si parla mai di bambini adottati, si parla di disabili e di immigrati. Le diversità, le differenze, sono tutte lì. Non è poca cosa, ma non è niente rispetto al tutto.
Insomma, ho scoperto che chi fa da sé fa effettivamente per tre, in senso tecnico.
Di lì a poco ho iniziato l’inserimento graduale di Estefani alla scuola materna, tenendo a casa solo Alejandra, dolcissima e silenziosa, fino all’inizio di gennaio dell’anno successivo. Estefani all’inizio mi ha permesso di lasciarla da sola in mezzo a tanti bambini senza crearmi problemi. Era così poco attaccata a me che mi considerava una delle numerose figure di mamà o di senora che fino ad allora avevano attraversato sorridendo la sua vita, ma le avevano lasciato appena un po’ di tepore nel palmo della mano.
Il primo giorno che l’ho lasciata da sola per qualche ora, quando sono tornata a riprenderla stava disegnando allegramente, seduta ad un tavolo pieno di pennarelli e matite colorate. Quando mi ha vista mi ha riconosciuta e mi ha sorriso. Le leggevo nello sguardo che si chiedeva, però, come mai mi trovassi di nuovo lì. Non si alzava per venirmi incontro come fa adesso. Anche se adesso esagera perché comincia ad urlare mamma da lontano e si mette a correre a braccia aperte: sembra di essere in un film. Quel giorno ho percepito però un guizzo incerto dei muscoli delle gambe, presto frenato. L’ho abbracciata e le ho detto che dovevamo vestirci ed ho cominciato a parlarle continuamente, e a dirle che era arrivata l’ora di tornare a casa e che cosa voleva fare, lasciarmi tutta sola senza di lei, e come avrei fatto, che mi era mancata e a casa c’erano gli stessi pennarelli dell’asilo, che è vero che l’asilo è bellissimo y estan tantos amiguitos, y juegitos, ma adesso andiamo insieme a casa, perché quando l’asilo è finito la mamma ti porta a casa insieme con lei.

4 commenti:

Maddalena ha detto...

Anna Maria, di mamma non ce n'è una sola, ma ci sono anche mamme che sono più di una mamma, anzi sono supermamme, come te!

Anonimo ha detto...

mio dio che tenerezza.

Maria Cristina Campagna ha detto...

Scrivi veramente con il cuore. Sembra di leggere un romanzo che non finisce mai.
Baci

Anonimo ha detto...

Concordo con Maddalena: sei proprio super!!
Bacioni Ely

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