giovedì 12 luglio 2007

Orchidea selvaggia

Una passeggiata di salute.


a cura di Anna Grazia Giannuzzi

Quando realizzammo di essere completamente soli all’aeroporto internazionale di Bogotà “El Dorado”, ci abbracciammo alle valigie ed a me toccò dimostrare a mio marito che i tre mesi di spagnolo, sia pur con lezioni a singhiozzo, perché interrotte dai miei studi a Roma, non erano stati del tutto inutili.
Sentendomi molto arrabbiata e con un vago presentimento di cose storte in arrivo, di tutte le lingue che presumo di conoscere mi veniva in mente solo il tedesco e continuavo a ripetermi Muenzte, che vuol dire monete, spiccioli. Volevamo telefonare al nostro referente ed avevamo un sacco di soldi, ma non una tessera telefonica o cinco pesos da inserire nei telefoni a gettone. Questa cosa l’abbiamo raccontata poi ad altri genitori adottivi in partenza, offrendogli le nostre monete e la nostra esperienza.
Dunque, a nostro agio come Totò e Peppino a Milano, abbracciati alle nostre valigie ci siamo trascinati fino ad un cambia valute. La signorina allo sportello ci sorrideva incuriosita, incoraggiandoci a parlare, probabilmente commossa dal nostro aspetto disfatto dopo quasi due giorni di viaggio e dall’atteggiamento pieno di contegno che voleva esprimere a chi ci osservava il nostro unico pensiero, che era articolato più o meno così: non abbiamo fatto 5 anni di università a Napoli per farci borseggiare dai ladri colombiani. Se proprio dovevamo farci rapinare, per spirito patriottico, avremmo acconsentito di farcelo fare sempre a Napoli. O comunque in Italia.

Così, sebbene nel complesso non fossimo propriamente lucidi, riuscimmo a trovare il numero ed a telefonare al nostro referente.
Ci rispose che l’aereo doveva atterrare alle 14.45 e come mai eravamo già lì. Non avevamo una risposta alla domanda posta, ma ci consolò sapere che Gabriel stava arrivando. Anche lui, quando ci vide, ci tenne a precisare in ottimo italiano che a lui era stato detto di essere all’aeroporto alle tre meno un quarto e lui c’era.

Quasi convinti ormai di essere stati noi a fare qualcosa di sbagliato, ci lasciammo condurre alla macchina che ci avrebbe portato in albergo.
Il cielo era terso e tutto mi sembrava enorme, le strade i palazzi, i cartelli pubblicitari. Cercavo di immagazzinare profumi e puzze, colori e forme, percepire le voci dei colombiani che parlavano tra loro e tutti i suoni della città nella quale stavamo entrando, inghiottiti nel traffico fitto di una grande Avenida della quale non capii il nome, che arrivava al cuore di Bogotà, tagliandola a metà.

Anche il mio cuore era ormai aperto in due e non era per dolore. C’era una fessura schiusa nella quale stavano per seminare tre germogli di piccole donne.
Il colore della loro pelle e la sfumatura dei loro capelli e delle loro unghie, ancora non le conoscevo. Né il profumo del loro corpo nel sonno o la consistenza dei loro abbracci, né la violenza dei loro capricci o l’insistenza del desiderio di tutte le cose che i bambini vedono e subito gli manca non averle.

Ora dovete sapere che io mi sono sempre paragonata ad un’orchidea, non per una questione di bellezza presunta o vantata, ma perché ce ne sono alcune pensili, con radici aeree ed io così mi sento.
È solo un caso, riflettevo lungo la strada, che dal Acuerdo 109 del 29 de diciembre de 2003 il simbolo della città di Bogotà sia una specie di orchidea in pericolo di estinzione, la orquídea Odontoglossum luteopurpureum Lindl?

Ha petali grandi e vistosi, è color caffè tendente al rosso, con alcune macchie arancioni e bianche, dalle quali deriva il suo nome scientifico. E’ una pianta epifita, cioè vive principalmente sopra i rami degli alberi, ma non è una parassita.
Il mio colore preferito è l’arancione.

Insomma, andava tutto bene, non ci avevano rapinati o rapiti, stavamo andando in albergo ed io ed il simbolo della città avevamo una simbiosi segreta che solo noi due condividevamo.

E comunque fosse, tutto quello che contava davvero era che mi sentivo forte e felice come non mai, innamorata, riamata e davvero piena di vita. E almeno io, al momento, non ero in pericolo di estinzione. Certo, se avessi saputo prima come guidano a Bogotà, chissà, uno scongiuro napoletano…



3 commenti:

Maddalena ha detto...

Hai descritto così bene i luoghi che sembra di sentirne il rumore e gli odori!

Anonimo ha detto...

bella la metafora dell'orchidea!

Anonimo ha detto...

I tuoi racconti lasciano sempre un qualcosa di misterioso, come se dopo dovesse accadere l'imprevisto, l'inaspettato. Hai un modo di scrivere che cattura. Ed anche a me è piaciuta la parte dell'orchidea. E' come avere i sensi ai massimi livelli di percezione. Devi essere una donna, oltre che forte, molto molto sensibile.
Aspetto il continuo...

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