martedì 15 maggio 2007

Una mamma, un papà, due genitori


Quando mio marito è nato padre non sapeva che gli avrebbe fatto così male interrogarsi sul senso vero della sua vita. Così per qualche tempo gli ho raccolto i pezzi e l'ho visto rinchiudersi in un silenzio denso, che non mi permetteva di avvicinarlo. La fatica dell'amore sta nella misura e quando non si ha la pancia per poter sentire sembra che il cuore batta a vuoto, troppo o troppo poco. La mente serve solo a fare domande: avrò tutto quello che serve per essere un buon padre, o meglio: tutto quello che ho, serve? Le sue domande inespresse affioravano in punta di labbra. Estefani, che aveva tre anni e mezzo, rifiutava me e aveva scelto lui, non per l'accudimento spicciolo, il lavoro sporco era tutto mio, ma per la consolazione e le coccole, soprattutto per l'addormentamento serale. Ero contenta che lui potesse sperimentare con le bambine un ruolo affettivo pieno e non soltanto quello più tradizionalmente normativo, eppure ne ero gelosa. Segretamente, però, ero arrabbiata con mia figlia che non mi permetteva di amarla come desideravo: mi sentivo rifiutata e spiavo un segno di cedimento, un abbassamento delle sue difese che mi permettesse di abbracciarla senza sentirla abbandonarsi immota e rigida, come certi animali che si fingono morti per sfuggire al predatore. Quanto a mio marito, volevo che i limiti e le regole li decidessimo insieme e volevo che lui, esercitando quella capacità di tenerezza che gli avevo sempre riconosciuto, mi sollevasse anche un poco dal peso esclusivo della maternità, lasciandomi conservare quegli spazi irrinunciabili di autonomia che avevo annotato in una lista prima di firmare per l'adozione. Per non dimenticarli quando sarebbero arrivate le bambine. Però lui era più preoccupato ed apprensivo di me e mi costringeva ad essere quella forte: questo mi impediva di esprimere quanto io stessa sentissi il bisogno di chiedere aiuto. Eravamo molto soli. Io mi riflettevo nello sguardo di mio marito: sapevo di apparigli potente e inimitabile, irraggiungibile nella mia felicità risplendente. Sembravo avere tutte le risposte, le carezze giuste e non accusare mai stanchezza. Sembrava che qualsiasi cosa la sapessi fare meglio. La mia voce dolce e rassicurante non era più per lui. E non sapevo dirgli altro che fai il padre usando l'uomo che sei. E dove andato l'uomo per me che c'era prima. Come se ci avessimo sempre abitato ce ne andavamo in giro per Bogotà, camminando abbracciati, e a turno ci passavamo le figlie più piccole tra le braccia. Andavamo tutti a spasso mano nella mano: io avrei dovuto avere tre braccia per accontentare tutte. A volte le piccole camminavano con lui ed io portavo nel passeggino la grande, indispettita e immusonita: a nove anni e mezzo esercitava un suo diritto irrinunciabile, perché io non c'ero stata quando lei aveva tre anni e non l'avevo portata in giro con me, come ora facevo con le sue sorelle. Si sentiva che ci piacevamo, ma non avevamo ancora capito bene come stare insieme. Io mangiavo con entrambe sulle ginocchia, loro reclamavano la pierna. La grande approfittava dello spazio lasciato da una delle due per occuparlo e appropriarsi così del mio corpo, offrendomi il suo da proteggere. Poi le cose sono cambiate. Abbiamo iniziato a frequentare piscina del Centro Italiano di Bogotà. Grazie all'acqua socializzavamo ancora di più con i nostri corpi e sperimentavamo la fiducia reciproca: le piccole non sapevano nuotare, mentre la grande si esibiva per ottenere la nostra approvazione e all'improvviso decideva di raccontare un poco del suo passato. La prima volta ci eravamo preparati con un giro di shopping estremo, durante il quale, di fronte ad un padre tra l'allibito e il divertito, le nostre figlie avevano da subito lasciato intendere quale spiccata abilità nello spendere soldi consolideranno nel tempo, mostrando gusto e decisione nella scelta dei capi. Al ritorno eravamo tutti allegri e, scendendo dal taxi con le figlie sudate e quasi addormentate in braccio, abbiamo trovato il nostro avvocato ad aspettarci. Davanti ad un buon caffé italiano, mio marito si è portato in aereo la bialetti ma il caffé lo compravamo lì, un tinto con leche y azucar, l'avvocato ci ha aggiornati sui tempi del Tribunale, il Juzgado 17. Nomen omen, ma di questo vi dirò più avanti. Mentre cercavo di evitare che le mie figlie si versassero lo zucchero in bocca direttamente dalla zuccheriera, ci ha raccontato di una coppia che era appena ripartita senza i bambini che aveva chiesto di adottare. Nessuno ci aveva detto che poteva succedere, ma è vero che può succedere. Sono scoppiate mille domande: è davvero difficile fare i genitori, ma possiamo rinunciare a vedere Aleja che cresce abbastanza da arrivare a schiacciare il pulsante dell'ascensore senza essere presa in braccio? Fa male sentire chiamare papa, sì senza accento, qualsiasi uomo adulto, ma vogliamo perderci il momento in cui quella parola avrà l'accento e per loro lo stesso significato che ha per noi? Tutte e tre avevano appena smesso di sedersi a giocare per terra fuori la porta della nostra camera da letto, aspettando che noi ci svegliassimo e salivano sul letto a guardarci, ridendo. Estefani mi avrebbe dato la chanche che aspettavo, soprattutto quella di farmi perdonare, perché mi risultava così difficile capire che potesse fare fatica ad accettare la sconosciuta che, da un giorno all'altro, si era messa a fare la sua mamma? Chi avrebbe accompagnato a danza Fanny, che aveva appena confessato in gran segreto che da grande vuole fare la ballerina, e che aveva immaginato un padre più giovane, ma non perdeva occasione per abbracciarlo e chiedergli com'è l'Italia e quando partiamo? Ci avrebbero perdonato l'inadeguatezza che sentivamo rispetto all'impegno assunto? Saremmo riusciti a ricordarci chi eravamo ed a capire chi stavamo diventando? Volevamo davvero andare avanti ? I nostri figli la prima volta sono nati perché sono nati e basta. La seconda volta nascono tra le nostre braccia, perché noi possiamo dare a loro la continuità della vita che hanno appena respirato. Ed anche noi eravamo appena nati e volevamo vivere e continuare a respirare, tra i loro capelli neri, il profumo intenso della pelle delle nostre figlie. E guardare il mondo con i loro occhi.

Noi, nel meglio e nel peggio, ci saremmo stati.

3 commenti:

Giulia Lu Mancini ha detto...

che bella storia, penso che l'adozione comporti davvero un amore più grande... complimenti

Anonimo ha detto...

Ho letto con attenzione e con grande emozione il tuo racconto. A tratti ho quasi vissuto, nel mio immaginario, quei momenti della vostra passeggiata: ho sentito il sole, il rumore della gente, la vostra gioia e le vostre ansie.
Ma ciò che mi ha colpito maggiormente è stata la tua pseudo-confessione. Dover ammettere che, nonostante tutti i tuoi sforzi ed il tuo enorme impegno, non fossi riuscita subito a conquistare la tua bambina più grande ti ha reso più vicina a me che ti leggevo. L'immensa forza che trasmetti mi metteva un pò di soggezione, ma ora io ho sentito quella che definisco la fragilità emotiva di una mamma. Una mamma dolcissima.
Vi ammiro per questo vostro grande passo e per la vostra capacità di cercare un equilibrio su un qualcosa che vi è arrivata così senza tanti preamboli.
Credo che sarete dei genitori fantastici, migliori di quanto voi possiate credere. Ti assicuro che quando dicono che fare il genitore sia il mestiere più difficile del mondo non si sbagliano affatto. Ma si può almeno tentare, no? Tra amore, buon senso e tanta pazienza... i figli crescono e neanche ce ne accorgiamo!
Aspetterò il continuo di questa che spero sia una storia a lieto fine.
Un bacio
Ely

monica p ha detto...

come al solito hai colpito nel segno e non sono riuscita a trattenere le lacrime ! hai un grande dono: la capacità con la scrittura di entrare nel cuore di chi legge e risvegliare quelle emozioni agro-dolci di chi come voi....ha vissuto...

grazie baci Monica

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