lunedì 21 maggio 2007

Da Viaggio nella terza età


Come vi avevo annunciato nell'ultimo articolo, vi pubblico un racconto che parla di Giuvanni, un anziano. Se avrete tempo e voglia di leggerlo mi piacerebbe che lo commentaste. Vorrei sapere cosa ne pensate.

Baci


AUTUNNO



Giovanni è seduto sulla panchina, nel parco che circonda la grande casa di famiglia. Guarda il fiume scorrere davanti a sé.
Le foglie non sono ancora cadute del tutto, ci sono alberi dai colori giallo-arancio, alcuni rossi e quelli ancora verdi, come i cespugli ed i rovi. Con l’umidità, le foglie cadute formano un tappeto soffice. La temperatura è mite.
A Giovanni è sempre piaciuta questa stagione. Dopo la vivacità dell’estate, questo tempo di serenità lo tranquillizza.
Cerca di seguire il volo degli uccellini rimasti, sono passerotti, ma i passeri sono più veloci del suo sguardo.

Era arrivato dal panettiere, era sceso dalla bici a fatica e si era avvicinato al muro di fianco al negozio per accostarla, ma non era riuscito neppure ad aprire il cavalletto. Aveva sentito una fitta e gli pareva scoppiasse la testa. Aveva mollato la bici, si era portato la mano al petto e si era trovato a terra semi incosciente. Quando aprì gli occhi, il panettiere ed altra gente del paese cercavano di aiutarlo. Questo era accaduto un anno prima.
In ospedale l’avevano sistemato in una stanza con tre letti, lui era in quello vicino alla finestra, lo schienale appena rialzato, un flebo al braccio e due tubicini al naso che lo aiutavano a respirare. Quel giorno c’erano tutti. Il primario, i suoi tre figli e sua nipote.
Era la seconda volta che si sentiva male. La prima volta se n’era accorto appena, aveva avuto una leggera ischemia, cinque anni prima, che aveva lasciato il braccio destro un po’ più debole ed il labbro che tirava da una parte.
“Ora le cose sono più gravi” aveva detto il primario, “Bisognerà avere pazienza. Con la fisioterapia ed un po’ di buona volontà, tornerà a camminare. Riuscirà a muovere meglio anche il braccio e la mano”.
Adesso il braccio non lo muoveva e la gamba la sentiva poco.
Vedeva gli sguardi perplessi dei figli, come se si stessero chiedendo “Che facciamo ora?” Non possono lasciare il lavoro per stare dietro a lui. Maria lavora nel negozio del marito, in città, ed ha due figli, Linda, che ormai ha vent’anni e Giacomo più piccolo. Paolo, avvocato è oberato di lavoro ed anche lui ha famiglia. Laura, vive e lavora a Milano e ci vogliono due ore di strada per arrivare.
Giovanni li guarda. Sono grandi, il tempo è volato ed ora sono loro a prendersi cura di lui, questo non gli dispiace, ha fiducia in loro e sa che troveranno una soluzione. Parlano col primario e poi discutono tra loro. Giovanni non aveva voglia di sentire e distoglie lo sguardo girandosi verso la finestra.
E’ tarda mattinata, il cielo è coperto da un grigio uniforme. Siamo in pieno autunno, ma da lì non si nota. Gli viene in mente l’odore del muschio fresco, dell’uva appena raccolta e delle foglie umide, che si sente a casa sua e gli occhi si fanno lucidi.
Sono tutti raccolti ai piedi del letto, Linda gli si avvicina, “Vedrai che si risolverà tutto. Ci riusciremo, non preoccuparti”. E lo bacia.
E’ la sua nipote preferita, la prima, quella che ha vissuto con lui i primi anni di vita, per poi trasferirsi in città, quando la casa acquistata dai genitori era completata. Il padre ha un negozio di arredamento a Verona, e fare avanti e indietro tutti i giorni, era lunga. Lei spesso lo va a trovare ed ascolta ancora le storie che lui le racconta.
“Lo so” risponde lui, “Ci vorrà del tempo, ma sono forte e non è ancora arrivata la mia ora”.
Dopo il ricovero in ospedale si era trasferito a casa di Maria, per poter fare la riabilitazione, che era durata tre mesi. Così l’inverno è passato in città. Si impegnato ed è tornato autosufficiente. La forza gliel’ha data il desiderio di poter tornare a casa sua.

Ora, seduto sulla panchina cerca di capire cosa il fiume vuole dirgli. E’ lento e stanco anche lui. Tanti anni fa era rigoglioso, pieno d’acqua e scorreva impetuoso. Un paio di volte aveva piovuto molto ed era straripato. L’acqua era arrivata sino alla casa, coprendo i campi ed il giardino. Ma nell’ultimo decennio il fiume si è calmato ed ora lo si attraversa facilmente senza bagnarsi neppure le ginocchia.
Domani sua figlia Maria verrà a prenderlo, per portarlo via da quella che è sempre stata la sua casa e la sua terra. E’ stata una decisione difficile da prendere e del resto non ne è ancora convinto, ma non vede altre alternative.
Ascolta la natura, attento a non appisolarsi, come gli capita spesso e sente qualcuno alle sue spalle che lo chiama.
Dora, è arrivata in silenzio e lo cerca. Giovanni si alza e la saluta. Dora appoggia la bicicletta alla ringhiera del portico e prende una borsa. Ha un fazzoletto sulla testa ed il suo scialle beige sulle spalle. Giovanni si avvia verso la casa, il tappeto di foglie attutisce il rumore dei suoi passi lenti e pesanti. Gli sembra di camminare su una nuvola.
Gli ha portato delle polpette ed una torta di mele.
“ Dora, se non avessi te……non c’era bisogno”. Dice lui, “ domani arriva mia figlia”.
“Pensavo che questa sera tu non avessi nulla da mangiare e ho preparato il tuo piatto preferito, così avrai un buon ricordo di me”. Dice Dora con gli occhi lucidi.

Ha il viso pieno di pieghe e rughe su una pelle ancora morbida e colorita. E’ sempre stata una bella donna. Giovanni la conosce da quando erano ragazzini e giocavano insieme. Dora è stata anche innamorata di lui, ma lui non l’ha mai considerata più di un’amica. Negli ultimi anni lo ha aiutato e gli ha tenuto spesso compagnia.

“ Grazie” risponde Giovanni, “ Entra, ti preparo un tè” le dice.
“Devo andare da mia figlia, le ho promesso di tenere i bambini”. Risponde Dora.
“Come vuoi” risponde Giovanni, e si salutano.
“Spero di rivederti”.
“Tornerò, tornerò presto.” Risponde lui.
Lei sale sulla bicicletta, si aggiusta lo scialle e parte. Giovanni alza il braccio per salutarla e la guarda allontanarsi lungo il vialetto e poi imboccare la strada.
E’ indeciso se tornare alla panchina o rientrare. Le giornate si sono accorciate ed il sole è già dietro alla collina, che nasce subito accanto al fiume. Guarda la panchina. Avevano deciso di comprarla, lui e sua moglie Luisa, vent’anni fa, quando ancora andavano insieme al fiume o passeggiavano nel parco.

Prima si sedevano a terra o su una coperta, poi avevano comprato delle poltroncine di vimini, ma non erano stabili, col tempo si rovinarono e poi l’età rendeva i loro corpi meno elastici. Luisa ebbe l’idea di comprare quella panchina. Era fuori a pulire il giardino dalle erbacce cresciute. Si tirò su di scatto e guardò verso il fiume, aveva il viso soddisfatto, gli occhi illuminati ed il sorriso di chi ha trovato una soluzione. Entrò in casa, aveva ancora i guanti nelle mani, raggiunse lo studio e disse a Giovanni: ”Compreremo una panchina”. Il mattino seguente partirono per Verona. Poco prima della città c’era un’aziende che produceva oggetti in ferro battuto. Vendevano gazebo, fontane, sedie, poltrone, tavoli ed anche lampioni. Luisa trovò subito quello che cercava. Era in esposizione nel grande piazzale, accanto ad altre. Piaceva a tutti e due. La scelsero in ferro battuto nero, con la seduta e lo schienale di legno e ci fecero incidere i loro nomi su una targhette in ottone. Poi fecero fare anche un tavolino e riuscì a convincere Giovanni che pure una fontana sarebbe stata bene nel giardino.
Su dove sistemarla non c’erano dubbi. C’era un punto dove il fiume era più visibile, a qualche metro dall’acqua, non lontano dal grande albero che nelle ore più calde formava un ombrello d’ombra.
Quando Giovanni pescava, Luisa lavorava a maglia o lo contemplava. Leggevano poesie, oppure vi andavano da soli per smaltire qualche arrabbiatura e ritrovare la pace.

Luisa se la prendeva quando Giovanni si mostrava troppo disponibile. Era veterinario, amava il suo lavoro e gli animali, ma secondo lei, le persone se ne approfittavano. Lo cercavano ad ogni ora e nei giorni di festa. E quando lui usciva per chiamate non urgenti, lei indispettita non lo salutava neppure e se ne andava a sedere sulla panchina. A volte lui la ritrovava lì, quando tornava.
Lui invece, ci andava quando aveva bisogno di non sentire lei, che gli rimproverava di non aver ancora fatto questo o quello. Usciva di casa senza risponderle e raggiungeva il fiume. Ma erano più le volte che vi andavano insieme.
Quando Luisa poi se ne è andata, quello era diventato il luogo dove la ritrovava e leggeva ancora a voce alta poesie.

Era tardi e Giovanni decise che vi sarebbe tornato l’indomani.
Prende le polpette e la torta di mele che aveva appoggiate sugli scalini del portico ed entra in casa.
Va in cucina e dispone le polpette e la torta sul tavolo. Vuole imprimersi nella mente ogni cosa. Sulla destra c’è la vetrina con i bicchieri e piatti buoni, tutti in fila sulle mensole arricchite da un merletto. Guarda dietro agli sportelli che non sia rimasto del cibo che possa deteriorarsi, controlla il frigo, ed apre i cassetti, dove prende una forchetta e coltello. Si siede a capotavola del tavolo di legno massiccio. E’ l’ultima sera che cena lì e non ha appetito.

Quando era bambino erano in tanti, a capotavola sedeva il nonno, il padre di suo padre, a fianco la nonna, i suoi genitori, una zia ed i suoi tre fratelli.
Qualche anno dopo la nonna morì, in breve se n’andò anche il nonno e la zia andò a vivere in città. Rimase la sua famiglia.
Era il più piccolo e vivace dei quattro figli, due maschi e due femmine, faceva impazzire la madre. Gli piaceva correre, giocare e scherzare con gli animali. Avevano due cani. Sul retro della casa, galline, conigli e tre tacchini, per un breve periodo avevano tenuto anche un cavallo. Fu portato via a causa della guerra che arrivò anche lì, un piccolo paese ai piedi dei monti Lessini. Lo presero il fratello più grande ed il padre che diventarono partigiani e sparirono sulle montagne.
Riuscirono a non abbandonare la casa, ma quando la guerra finì, tornò solo il padre. Di Lucio non si seppe più nulla. Il padre non aveva piacere di parlarne. Si era saputo che un giorno venne fermato dai tedeschi, che lo sorpresero con un messaggio per i partigiani e venne portato via.
Le sorelle si sposarono, Amalia, la più grande, era diventata maestra e si era trasferita. Ivana, era andata in un paese vicino, sposa del fornaio.
E proprio un giorno, che l’andava a trovare in bici, incontrò Luisa.

Era venuta a Bosco, il paese di Giovanni, per comprare del cibo e della stoffa. Abitava in campagna, tra Bosco e Selva di Prugno, il paese d’Ivana. Le si era bucata la ruota della bicicletta e camminava tenendola alla sua destra, con le borse della spesa appese ai manubri come i piatti di una bilancia. Era la fine degli anni quaranta e Giovanni era un bel ragazzo, di media statura con i capelli scuri e lisci, sempre in ordine, con la riga da una parte. Il suo modo di fare aveva conquistato molte giovani. Lui sapeva di piacere, era vivace, estroverso e pieno di sé, era un modo per nascondere un pizzico di fragilità e timidezza, e funzionava.
Quando la vide da dietro rimase colpito dalla sua andatura, leggera e regale. Aveva una gonna che arrivava sotto il ginocchio, scura e dritta che la fasciava appena ed una maglia di lana azzurra con una cintura. I capelli raccolti erano nascosti da un foulard legato al collo. Era un autunno tiepido, col cielo azzurro e poco vento.
Le chiese se aveva bisogno d’aiuto. Lei si girò senza fermarsi e disse “No, grazie”. Poi tornò a guardare davanti a sé, con un leggero rossore sul viso.
“Allora ti accompagno, ” disse lui, “Andiamo nella stessa direzione.”
Proseguirono in silenzio per un po’, poi riuscì a farla parlare.
Abitava in una cascina sulla strada a qualche chilometro dal paese. Aveva studiato alle magistrali e voleva fare la maestra.
Da quel giorno Giovanni aspettava di vederla passare sulla strada di fronte a casa sua e le andava incontro. All’inizio facevano finta di trovarsi lì per caso. Parlavano molto. Lui aveva scoperto di essere più timido e dolce di quello che appariva e lei più forte e decisa.

Giovanni guarda la sedia alla sua sinistra. Lei era sempre stata seduta lì. Sua madre se n’andò prima del loro matrimonio, e suo padre, una volta sposati, gli cedette il posto a capotavola.
Mangia una polpetta. Come le fa Dora non le fa nessuno, sono tenere, con macinato di prima scelta, senti il parmigiano ed un pizzico di noce moscata. Ma resta in bocca troppo tempo e va giù a fatica. La casa è troppo grande, pensa, e non riesce più a cavarsela senza l’aiuto di qualcuno.
Lascia la cena. Va in sala, è grande ed è un tutt’uno con l’ingresso, c’è il camino in pietra, con le incisioni floreali che, nella parte centrale, è scuro, annerito dal fumo. Sopra ci sono alcuni soprammobili, ed un paio di fotografie e più in alto, sul muro il ritratto di Luisa.

Era stato un amico di Giovanni a dipingerlo. Lei posava seduta sulla poltrona di pelle, che ancora è lì, di fronte al camino. A trequarti, con le mani una sull’altra, appoggiate sulle gambe incrociate e la schiena rilassata sullo schienale. Era estate e Luisa indossava un abito senza maniche, stretto sul seno ed in vita. Da lì partiva una gonna che si allargava a ruota, verde con dei nastri e fiocchi. Il viso radioso come lo è sempre stato. Aveva anche un po’ di rossetto e i capelli neri erano tirati su, fermati da uno spillone. Era l’inizio degli anni sessanta ed avevano già tre figli.
Quel vestito lei lo adorava, ma non aveva avuto molte occasioni per indossarlo e quando le aveva chiesto se volesse posare per il quadro, lei disse di sì, ma solo se avesse potuto mettere il suo vestito.

Nella sala di fronte al camino, oltre alla poltrona di pelle scura c’è un divano da un lato ed altre due poltrone dall’altro. Nel centro un tavolino ed a destra la libreria con una scrivania antica, dove ora ci sono in bella vista fotografie di famiglia.
Di foto ce ne sono molte in giro, quelle più vecchie di suo padre e del nonno e quelle più recenti dove lui è insieme ai nipoti. Cammina lentamente, riapre lo studio, dove ha lavorato per anni come veterinario e guarda tutto, senza lasciarsi sfuggire nulla. Controlla anche che le finestre siano chiuse bene. Passa nel ripostiglio, pieno di scatoloni ed un guardaroba, ma non entra, poi nella camera dove dorme ora, al piano terra, apre la porta e dà un’occhiata.
E’ un po’ che non sale, ma questa sera vuole ricordare. Si appoggia con il braccio buono al passamano di legno, scricchiola un po’ come gli scalini, ha bisogno di una riverniciata e sale piano tenendo pure il bastone. Sente un dolore allo stomaco e la tristezza che sta prendendo il sopravvento. Quando arriva, apre le porte, controlla le finestre, da un’occhiata alle stanze e poi esce. Sono tutte in ordine, ci sono dei copriletto sui materassi e pochi oggetti sui mobili, Giovanni cerca di ricordare chi ci ha dormito nell’arco degli anni. Quando arriva all’ultima, esita prima di aprire, la mano fa cigolare la maniglia. Sulla sinistra c’è il letto dove ha dormito per sessant’anni con sua moglie, è alto ed in ottone, di fronte a lui c’è un finestrone che da sul terrazzo, vicino due poltroncine ed un tavolino con un centrino ed un vaso vuoto, alla sua destra di fronte al letto il camino, incassato nel muro, sopra una foto del loro matrimonio ed a sinistra l’armadio. Osserva ogni cosa, piccoli oggetti, la spazzole di Luisa sul comò, sui comodini, la vecchia sveglia, due libri, il vangelo ed altre foto. Apre la finestra ed esce sul terrazzo, il sole se n’andato dietro alla collina, ha lasciato il cielo striato di rosso ed arancio. La richiude bene e siede sulla poltrona per qualche minuto. Non dorme in quella stanza da quando sei anni prima Luisa si è spenta proprio lì, in una notte d’inverno, accanto a lui.

Giovanni non ha voluto tenerla in ospedale, così le è stato vicino sino alla fine. Si è consumata poco a poco, sempre più esile e debole, alla fine non mangiava più, solo liquidi. Quella sera lui aveva capito che se ne sarebbe andata e si sono scambiati parole d’amore.
Da quel giorno Giovanni dorme al piano terra, anche perché poco dopo ha avuto l’ischemia. I figli se ne erano andati e non aveva senso utilizzare il piano superiore tranne che nei fine settimana o per le vacanze, quando gli facevano visita i figli ed i nipoti.

“Bisognerà trovare un rimedio, ” pensa, “non posso lasciare questa casa, voglio morire qui”.
Si alza e scende giù. Prende qualche pezzo di legna nella cesta di fianco al camino ed accende il fuoco. Il telefono squilla, è Maria, lo chiama ogni sera e gli chiede le solite cose. Ha la voce meno allegra del solito.
“Sei pronto? “ gli chiede.
“Non sono pronto. Forse non lo sarò mai.” Le risponde con voce rassegnata.
“Ne abbiamo già discusso. La casa è troppo grande, ha bisogno di essere ristrutturata. Tu hai bisogno di essere assistito. La soluzione migliore è quella che abbiamo detto.” Risponde lei.
“Non lo so.. è che è difficile..”
“Nei fine settimana o per le vacanze potrai tornare, non la venderemo.” Cerca di tirarlo su.. “Piuttosto, hai mangiato qualcosa? Dora mi ha detto che ti ha portato da mangiare.”
“Sì” dice lui “non preoccuparti”.
“Bene” risponde Maria “allora ci vediamo domattina. Non farmi stare in pensiero, ok?” Conclude lei.
“Va bene”.
Non ha più la forza di combattere, non è più un giovane testardo e tenace. E seduto davanti al fuoco, cerca altre soluzioni, ma la mente è stanca. Ha avuto una bella vita, ha lottato, ha pianto e gioito. Non vuole morire lontano da lì. Si addormenta davanti al fuoco.

Linda ha ascoltato la telefonata. E’ curiosa. In televisione c’è la pubblicità che la disturba ed ha abbassato il volume. Poi raggiunge la madre in cucina. Maria ha il viso triste e gli occhi persi tra la schiuma del detersivo.
“Il nonno non se ne vuole andare?” Chiede Linda.
“Non è facile.” Risponde la madre, mentre continua ad accarezzare lo stesso piatto da un po’, immersa nei pensieri. Linda non sa cosa dire ed inizia ad asciuga le stoviglie accanto a lei.
“Ce l’hai ancora quell’idea in testa?”. Le chiede Maria passandole il piatto e cercando un aiuto o un consenso.

Linda aveva pensato di trasferirsi dal nonno. Ora studia all’università, ma potrebbe farlo benissimo anche da lì, solo quando avrebbe avuto degli esami sarebbe tornata in città. Il suo progetto era di trasformare la casa in un bed and breakfast. La casa ha quattro camere che non si usano, una bella sala, cucina, ed il giardino non manca. Poco distante c’è pure il parco naturale.
Lei e il nonno sono molto legati. Linda è la sua nipote preferita. Dopo che si era trasferita, tornava spesso dai nonni e vi restava per qualche giorno. Lui le leggeva storie, la portava a pescare e talvolta quando lo chiamavano per una visita urgente portava anche lei. Amavano entrambi gli animali, anche lei si era iscritta a veterinaria.
Ma Maria non era d’accordo. Aveva paura di perderla e con lei anche il padre.
Ci aveva pensato tanto a quel progetto e le piaceva. Col tempo si era resa conto che dipendeva tutto da lei. Si fidava della figlia, credeva nelle sue capacità, ma il cordone era duro da tagliare.

“Hai ancora voglia di pensarci?” Chiede a Linda con fatica.
“E’ quello che voglio”. Risponde lei.
Linda sa che per la madre è difficile lasciarla andare dal nonno, la vede ancora bambina, incapace di essere indipendente, ed è contenta che si sia decisa.
“Allora ci proveremo”. Conclude Maria.

Quando Giovanni si sveglia, nel camino c’è solo cenere. Ha ripiegato la coperta ed è uscito. Il sole si è alzato ed ha diradato la nebbia. Voleva andare a piedi fino in paese, ma preferisce non vedere nessuno, non gli piacciono gli addii.
Sta camminando dietro alla casa. Non hanno più animali, è rimasto il pollaio, vuoto, delle stie ed un capanno a qualche metro dalla casa pieno di scatoloni, alcune biciclette ed un tavolo da lavoro.
Il giardino è senza fiori, ma tenuto bene, dopo la morte della moglie, se ne è occupato il giardiniere, Giuseppe.
Luisa amava i suoi fiori. Poteva dimenticarsi di cucinare ma non di potare od annaffiare, e sulla tavola c’erano sempre fiori freschi. Soprattutto rose. Erano le sue preferite, ma anche primule, calle e viole erano la sua passione.
E’ fresco, Giovanni si è infilato un grosso maglione e la berretta, i pochi capelli bianchi resistono solo ai lati della testa.
Arriva alla panchina e si siede. Con se ha un libro di poesie, lo apre a caso, infila gli occhiali ed inizia a leggere. Ma sente suonare il telefono, si alza e va a rispondere.


7 commenti:

Anonimo ha detto...

Nella prima parte tutto ok. Nella seconda mi pare di percepire che qualcosa nella salute di Giovanni non vada bene. Lasci presagire qualcosa di triste. E' un'impressione sbagliata?
Spero di sì!
Ely

Anonimo ha detto...

L'hai letto tutto? Ha avuto dei problemi di salute, ma alla fine ci convive bene.
Baci
M. Cristina

Anonimo ha detto...

Che sbadata!!
Non ho affatto pensato di cliccare su "leggi tutto il post"!
Ora l'ho fatto però credo che mi ci vorrà un pò prima di farti sapare.
Grazie e scusa...!
Ely

Anonimo ha detto...

Sono curiosa. Fammi sapere.
Baci
M. Cristina

Anonimo ha detto...

Ho appena finito di leggere il tuo racconto... Lo ammetto la lunghezza mi ha un pò spaventata ma appena ho iniziato a leggerlo non mi sono fermata. L'ho letto tutto d'un fiato e mi è piaciuto.
Mi sono piaciute molto anche le pause, quel ritorno al passato. Mi sono emozionata quando lui ha ripercorso la sua vita all'interno della sua casa, salendo le scale, dentro la sua camera da letto.
Mi è piaciuto quel passaggio tra madre e figlia...Brava!
Credo che non sia facile raccontare di un viaggio nella terza età. Sai le tendenze oggi,spesso e purtroppo, condizionano. Ma tu le hai ignorate. E' un racconto diverso.
Complimenti anche per il tuo coraggio di metterti in gioco, ti ammiro.
Continua così!
Un bacione
Ely

Diomira Pizzamiglio ha detto...

Non è male, un po' lungo e lento.
E' vero che si tratta di un vecchio, che i suoi movimenti sono lenti, ma coloro che gli stanno accanto sono giovani ...ci sono pochi riferimenti ai suoi pensieri, secondo me.
Io movimenterei i parenti e li farei parlare di più. Devi produrre un contrasto che renda il racconto seducente perchè anche la lentezza della vecchiaia, come quella dell'autunno hanno un fascino che nulla ha di noia e lento così si è abituati a considerarla.
Prova a fare questo esercizio: fermati in un luogo che ti piace e restaci per diverse ore senza far nulla, senza parlare. Osserva ciò che ti circonda e lasciati avvolgere dal mondo che si muove intorno a te. Lascia che i ricordi affollino la tua mente e poi ritorna ad osservare come tutto si muove lento. E' un privilegio arrivare ad osservare il tempo, essere accuditi amorevolmente, ritrovarsi vecchi e amici ancora insieme. E la malattia è parte del tempo e del vivere solo dopo averla accettata, nessuno l'accetta senza lottare, nemmeno un vecchio stanco. O meglio i vecchi stanchi si lasciano morire, ma non è questa la storia. Tempo lento ...è l'equilibrio per poter restare in piedi.... (Piero Pelù).
Comunque brava, è un argomento non facile da trattare, ma lo devi rendere così come lo hai percepito:affascinante.

Anonimo ha detto...

Grazie ad Ely e Diomira per aver avuto il tempo di leggerlo. Ma soprattutto grazie per i commenti e consigli.
Baci M. Cristina

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