venerdì 20 aprile 2007

Uova di quaglia e di gallina

L’ultima volta che mi hanno detto che i miei ovociti erano troppo piccoli, per poter essere fecondati, stavo guidando. Sarà per quello che di lì a poco ho rottamato la mia automobile: negazione e rabbia sono le prime fasi del dolore. Era primavera inoltrata e faceva caldo, io piangevo e pensavo che piovesse. Sono arrivata in ufficio ed ho tenuto la mia riunione. Mi sono trattenuta al lavoro il tempo prestabilito e poi sono tornata a casa. Ho preparato la cena, ripensando alla settimana appena trascorsa a Roma. Arrivata alla stazione Termini ero andata a comprare delle siringhe ipodermiche per potermi iniettare sotto la pelle dell’addome un farmaco contro l’infertilità. La farmacista mi aveva squadrata come se fossi stata una tossicomane, proprio a me, che per lavoro spiegavo ad adolescenti - giovani e vecchi - quanto fosse inutile e controproducente assumere droghe. Colsi il ridicolo nella contraddizione e sospirai, chiedendomi cosa stavo facendo e perché lo facevo.
Mi risposi che avrei fatto a meno della gravidanza e delle sue complicazioni, che non avevo più voglia di sottopormi più ad alcun tipo di cure, perché questa riproduzione cominciava come una malattia, ed io non ero malata.
La mia parte più frivola si rallegrò subito per la mia decisione, mentre io stessa mi sorprendevo per la rapidità con cui ci ero arrivata. Ma sono spesso stata in minoranza e non me ne sono mai pentita.
[..]
Cominciai ad elencare mentalmente tutti i lati positivi della questione:

Primo:non avrei mai dovuto rinunciare ai tacchi alti, che Roberta mi ha insegnato a portare e mi fanno pensare con passione all’epigramma libertino che dice “le gambe delle donne sono compassi che misurano il mondo, dandogli il suo equilibrio”;
Secondo: le mie tette non si sarebbero svuotate da un giorno all’atro dopo aver raggiunto dimensioni insospettabili in un essere umano;
Terzo: niente smagliature, niente ragadi, niente emorroidi, niente punti in vagina, nessuno sconosciuto che ti salta sulla pancia per farti sputare fuori il nascituro,
Quarto: non avrei dovuto convincere il ginecologo a farmi l’epidurale e poi a me le ostetriche hanno sempre fatto senso;
Quinto: niente consigli, risalenti al culto della Dea Terra Madre, di nonne, zie, cugine, cognate e vicine di casa, che avrei subito come un’ingerenza sgradita nella mia esperienza personale, visto che non mai capito come può essere che qualunque donna che abbia partorito il proprio figlio si senta in grado di dare pareri sui figli degli altri;
Sesto: le donne in attesa, cui fino a quel momento avevo riservato sguardi foschi di pura invidia, mi sfilavano ora davanti agli occhi come un catalogo di malattie ed indisposizioni varie dalle quali ero fortunatamente immune, quasi come povere vittime di circostanze sociali rispetto alle quali gli toccava fare buon viso a cattivo gioco;
Settimo: infine, nessuno si sarebbe azzardato a definirmi “primipara attempata”, solo perché non avevo 25 anni.

Ma i figli li avrei avuti ugualmente. E sarebbero nati per chartas, come mi suggeriva la giurista dentro di me. L’idea dell’adozione era già parte di me. Il fatto fisiologico della riproduzione mi lasciava indifferente. Adottare o avere un figlio sono la stessa cosa; si differenziano solamente in termini di tempo e di burocrazia. Dal punto di vista giuridico l’adozione è, da un lato, un complesso di diritti e doveri derivanti da un procedimento giurisdizionale e, dall’altro, la relazione di filiazione che s’instaura tra una famiglia ed un’altra persona.
Per me la maternità era una questione di energie psichiche, mentali, emotive e non di uova di quaglia o di gallina. Le persone che hanno regalato un senso di gioia alla mia vita sono quelle che mi hanno amata senza chiedermi nulla in cambio. Forse, non è stato un caso che queste persone non sono state le stesse che mi hanno generato. Poi, mi piaceva l’idea di allevare: una parola che sentivo usare raramente riferita a dei bambini. Tutti vogliono educarli, poche mamme sanno lasciarli crescere. E a me, invece, entusiasmava proprio la prospettiva di poter accompagnare delle piccole persone nella loro crescita e nella scoperta del mondo.
Avevo voglia di conoscere i miei figli, di scoprirli, di imparare a parlare con loro e di vivere la mia vita insieme a loro. Volevo continuare ad essere la donna felice che ero e fare ancora tutte le cose che mi rendevano felice, per quanto osteggiate o impegnative fossero. Volevo che i miei figli mi conoscessero così, capace di usare quella naturale intelligenza che riconosco nell’amore sano, che non imbriglia le energie vitali e non nega l’identità.
Parlandone con mio marito, il dolore scomparve definitivamente, per far posto ad un’accurata programmazione del percorso adottivo.
Mutata finalmente la prospettiva, l’adozione ci appariva per quello che realmente è, un diverso cammino per diventare genitori. Un figlio sarà sempre un figlio, qualunque siano le circostanze della sua nascita. Per qualcuno adottare un bambino è un gesto di solidarietà, per noi non lo era, non siamo anime caritatevoli e le nostre figlie non sono opere buone.
Avremmo dovuto frequentare molti corsi e sostenere un’infinità di colloqui. Ci avrebbero fatto studiare e ci avrebbero studiati attentamente, ma ci sentivamo convinti della nostra scelta e anche gli altri se ne sarebbero accorti; in più, continuando a parlarne avremmo scoperto, pian piano, quali radici profonde essa aveva in noi e ne saremmo stati via via sempre più consapevoli.
Il primo passo era questo: dovevo essere sufficientemente certa che la sensazione di benessere totale che stavo provando fosse reale: lontano, in qualche posto nel mondo, da qualche parte su questo pianeta, c’era una pancia in cui stava crescendo mio figlio o mia figlia, oppure lo aveva già fatto.

E quella pancia non era la mia.

3 commenti:

^Ranocchietta^ ha detto...

Si sente l'amore....non è una cosa da poco
Un abbraccio

monica p ha detto...

il tuo stile è inconfondibile, un pugno nello stomaco, che però non mi ha steso!!!! ho "solo" riprovato le mie stesse emozioni.

grazie
baci e un abbraccio Monica

Anonimo ha detto...

l'8 maggio 2007 scoprivo con orrore di essere incinta del mio terzo figlio, che ora è un baimbo di quasi sette anni. Cercavo qualcosa per mettere insieme pezzi di emozioni contrastanti nei confronti della maternità, grazie, bellissime parole pensieri

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