lunedì 23 maggio 2011

L'estasi dell'artista


di Marika Nesi

Velluto rosso

Avevo preso l’abitudine di portarle delle rose, ogni mattina, fin dal momento del suo ricovero; forse, quel rito mi faceva sentire meno colpevole per le visite lapidarie, interrotte presto dal fastidio per l’odore di detergente, tipico degli ospedali. Nonna Ione accoglieva quel gesto col suo sorriso garbato, stretta fra le lenzuola immacolate e il doppio strato di cuscini. Pareva stesse diventando ogni giorno più piccola! E il colore del suo viso, sempre più simile alla radica beige, che giungeva i tubolari metallici del letto.
“E’ un tumore”, sentenziò il medico, un pomeriggio d’estate. I miei pensieri esplosero in un tonfo.
“Ma non possiamo operarla” proseguì lui, guardando dritto verso mia madre.
“Sa, è per via dell’età. Per la cardiopatia…”, concluse.
“Perciò avete deciso di lasciarla morire!”, ribattei incredula, fissando il medico con aria di sfida e sperando, con le dita incrociate e nascoste in tasca, che una soluzione, in realtà, ci fosse. Mia madre mi fissò gelida, tacciandomi d’insolenza con lo sguardo, reso in qualche modo indefinito dallo spessore delle lenti; e concordò, sbrigativa, una data per le dimissioni di sua madre.
Non so ancora come riuscii, più avanti, a convincere nonna Ione a seguirmi a Bologna, osannata per la medicina efficiente; ma dove, nonostante qualche tentativo di cura, il tumore fu presto conclamato. E pomeriggio piovoso dimisero nonna Ione, definitivamente; Massimo le donò una pianta di rose, quel fiore che a lei piaceva tanto: avrebbe potuto occuparsene, con le poche forze che aveva, ingannando il tempo e il cancro; ma ella si trascinò verso in letto, con fatica, e nei giorni successivi si alzò sempre più di rado.
E tuttavia, annaffiava la pianta, le parlava, la liberava delle foglie secche; e le rose cominciarono a fiorire, rosse e vellutate, permeando il davanzale della stanza col loro profumo intenso.
Nonna Ione cessò di vivere poche settimane più tardi. Mi strinsi forte a mia madre, mentre sigillarono la bara, in preda all’impotenza, all’ineluttabilità del destino; all’irreparabilità della morte. In quell’attimo, promisi a me stessa che avrei curato le sue rose, come se lo spirito della mia cara nonnina ne fosse pervaso; e, nei giorni successivi, le trapiantai, sistemandole all’interno di un vaso purpureo, con l’edera in rilievo. Poi le rose appassirono, senza una ragione apparente; e io ripresi a trascinarmi per la vita.

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