mercoledì 9 dicembre 2009

Archi.D.Arte

Incuneandosi nell'abitato
a cura di Margherita Matera



Dal mio ufficio si vede parte della linea ferroviaria. Quando passa il treno, più o meno spesso durante il giorno, si avverte una leggera vibrazione, così istintivamente mi fermo e mi giro verso la finestra. Penso alla gente che sta facendo qualcosa di diverso da me, a quella che si muove, pur stando ferma, in altre direzioni. Così ho iniziato a pensare a chi progetta mezzi in movimento, navi piuttosto che barche piuttosto che treni o auto o aerei. Chissà se nel progettare questi spazi analizzano il movimento. La velocità. Concetto estremamente futurista. Quando si compone l’architettura di un edificio si prendono in esame i percorsi dei fruitori, di quegli uomini e donne che, a passo proprio, percorreranno lo spazio. E si costruisce un edificio attorno alla persona, almeno, così dovrebbe essere, pensando alle soste, alla visuale, alle vie di percorrenza. Si progetta l’immobile.
E lo spazio di un mezzo di locomozione, un mezzo che porta e non è portato, come si comporta?
Le ruote, o le ali o la vela, inquadrano finestre di luoghi sempre diversi, non è una visuale su di un albero che moltiplica stagionalmente i suoi fotogrammi, non è l’edificio che ci è davanti fermo, non è il mio treno giornaliero che mi racconta storie. È uno spazio in movimento che, se ben inquadrato, coincide con una città che sale, con un abitato vissuto diversamente, con il battito del cuore che coincide col cuore stesso.
E, accelerata di creazione, amante del tempo segnato dalle lancette penso che, tuttavia, ciò che compone il mezzo, non è solo l’apparecchio, ma soprattutto il movimento, chiave per entrare e diventare noi stessi spazio. Quello spazio di attraversamento che ci rende uomini moltiplicati. Quello spazio che sappiamo guidare e guardare. Oltre. Piloti noi stessi della direzione dei nostri pensieri.

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