giovedì 6 novembre 2008

BRICIOLE D'ESTETICA


L’amore al tempo delle cavallette
A cura di Vladimiro Zocca

Probabilmente è troppo facile attribuire comportamenti umani agli animali che, quotidianamente, incontriamo e vivono tra noi.
Gli umani sono, forse, troppo presuntuosi, sia quando umanizzano arbitrariamente questi esseri viventi sia quando li ritengono privi di sentimenti, in sostanza, di spirito e, quindi, completamente condizionati, quanto ai comportamenti, da un biologico ordine fisico.
Del resto, già nel IV secolo, Agostino che, mentre conduceva da grande pensatore una vita santificata, al servizio del prossimo e nel profondo rispetto delle realtà create da Dio, sosteneva in modo assoluto la seconda ipotesi.
Anche se io, che vivo da anni con almeno due gatti, qualche dubbio ce l’ho e mi viene da peccare un poco con la prima ipotesi; figurarsi se si tratta addirittura di insetti, considerati particolarmente nocivi a quei tempi.
Nell’ultima settimana di ottobre, pur essendo il clima eccezionalmente mite per un autunno avanzato, mentre mi accingevo a chiudere il portone della villa dei miei suoceri sui Colli Euganei, per ritornare in città, notai, all’altezza di uno dei battenti, due cavallette, unite, una sopra l’altra, in un amplesso silenzioso, come solo gli insetti sanno fare.
Non sono un entomologo, tuttavia mi sembravano del genere locuste migratorie, del colore del deserto che le fa quasi confondere con il bruno del portone; qualche macchia verde variegava la massa dei corpi allungati, dell’identico colore dell’erba ancora fresca dei prati lì vicino.
Le mie nozioni, non so quanto attendibili, apprese tanti anni fa alle scuole elementari di un paese sperduto in riva al Po, dal mio maestro unico, dotato della cultura di allora, ovviamente elementare, innescarono subito la mia immaginazione che, fin da bambino, si infervorava quando, sull’argine del fiume, incontravo certi animaletti.
Pensai che, in un imperativo etico da ortotteri, le due cavallette amanti si fossero rifiutate di partire in sciame per il Nord Africa e di offrire, così, il loro contributo di devastazione, consapevoli di costituire una delle dieci piaghe d’Egitto di biblica memoria, quelle che Dio mandava al popolo egiziano il cui faraone impediva agli Ebrei di partire per la terra promessa.
Animato da un rigurgito di sadico ed ingiusto laicismo, immaginavo che le due cavallette, se fossero partite, avrebbero forse potuto punire, a distanza di secoli, più a ovest, nell’odierna Algeria, gli innocenti conterranei di quel santo uomo di Agostino, ereditando su la colpa di non aver creduto allo spirito animale.
Un atteggiamento, quello del vescovo di Ippona, che consideravo tanto più ingiusto, se pensavo al mio maestro, quando mi insegnò che quel tipo di insetto stava immobile perché impegnato in intense preghiere.
Inoltre, mi affascinava, in particolar modo questo contaminazione di sesso e di preghiera che mi pareva elevare le cavallette ben al di sopra della loro condizione meramente riproduttiva.
Allora, per incitare i due insetti a partire per il Sud, ho interrotto il loro amplesso, intervenendo, forse in modo arbitrario, nei fatti interni della natura; subito sono volati, infatti, nelle due direzioni opposte, emettendo una specie di cri metallico; ma mi fecero l’impressione di essere molto seccate per questa improvvisa interruzione.
Sono ritornato in villa quindici giorni dopo quando, nel frattempo, le giornate si erano ingrigite e inumidite di esili brividi freddolosi.
Mentre mettevo la chiave nella toppa, con mia grande sorpresa, rividi le due cavallette avvinte nel loro amplesso d’amore, che erano ritornate sullo stesso punto del portone, come se si fossero ritagliate per l’eternità i confini ideali di un insolito talamo nuziale.
La livrea dei due insetti si era scurita, quasi ad assumere la stessa tintura persa del legno del portone, come in un personalissimo mimetismo, a protezione della loro intimità sessuale; anche l’erba vicina del prato sembrava partecipare a questo rito di sacra naturalità cromatica: il suo verde virava decisamente verso il giallo scuro e si stava ricoprendo di secche foglie rugginose.
Questa volta mi sembrò opportuno non interferire in questo rinnovarsi, nel tempo ciclico della natura, dell’eterno legame di amore e morte.
Ciclo di un tempo dell’eterno ritorno nel quale distruzione e amore possono mostrare una loro intima coerenza, pur nel libero arbitrio di una scelta tra i due comportamenti.
Non ho seguito le tracce degli scrittori entomologi del positivismo francese di fine Ottocento che descrivevano in buona scrittura i comportamenti sociali degli insetti, nelle loro analogie con le organizzazioni degli uomini.
Probabilmente, ho spinto troppo in avanti il processo di umanizzazione nei confronti di un mondo vivente, in fondo sconosciuto, che, da sempre, mi fa sentire il suo fascino da favola, lontano dalle scientifiche definizioni biologiche. Attraverso il cinema e la letteratura ho conosciuto il tempo degli assassini e il tempo delle mele, tuttavia, dopo quel singolare incontro con il mondo degli insetti, mi lascio prendere dall’illusione di avere scoperto anche il tempo delle cavallette.
Coltivo la speranza di aver riscontrato una scelta d’amore come facente parte di una quotidianità nella quale si impone sempre più quella sorta di spirito minerario con il quale il genere umano giustifica e razionalizza ogni violenza fatta alla natura.
Allora, non mi resta che rifugiarmi nella fantastica etica degli ortotteri, nell’attesa fanciullesca dell’amore al tempo delle cavallette.

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