sabato 23 giugno 2007

DI MAMMA (NON) CE N'E' UNA SOLA


LE CONSEGUENZE DELL'AMORE

a cura di Anna Grazia Giannuzzi

Presso il Juzgado 17 del Circuito de Bogotá, davanti ad un Juez de Familia, si è giocata la nostra vita di genitori adottivi. Un giorno siamo andati a trovarlo. Il professor Ciaffoni ci aveva convinto che era una cosa giusta andare a far vedere come andavano bene le cose e come stavano bene con noi le bambine. Tra scale ripide ed ascensori stretti ci sembrava di essere entrati in un vicolo d’inferno.
La cancelleria era ricolma di faldoni e due segretarie gentili hanno lasciato che le mie bimbe più piccole si sedessero su un bancone alto di legno scuro, mentre Fanny si guardava intorno e mi teneva la mano. I nostri accompagnatori cercavano di sapere come andavano le cose e quanto tempo ci voleva ancora per avere la sentenza, se c’erano problemi e guardate come sono carine le bambine e come già vogliono bene ai loro nuovi papàs. Erano passate ormai quasi quattro settimane e, di solito, in quel lasso di tempo i genitori adottivi avevano già dato il loro cognome ai figli ed avevano anche il passaporto per riportarseli a casa.Il periodo di ferie che avevamo preso dall’ufficio era trascorso quasi interamente e rischiavamo di trovarci anche senza stipendio, o magari licenziati per assenza ingiustificata, perchè il congedo obbligatorio per maternità nello stato italiano inizia dalla data della sentenza straniera che dispone l’adozione. Faceva caldo, le bimbe erano irrequiete ed avevano sete.
All’uscita, con dentro la sensazione di un nulla di fatto, ci fermammo in un baretto per bere una manzana, una bevanda fatta di acqua, succo di mela o solo aroma di mela ed un bel poco di aromi artificiali. Cercammo di non farle bere troppo perché poi in macchina vomitavamo.
Come era successo il giorno del nostro primo incontro.
Le avevamo aspettate in una stanza ampia, in cui c’erano una scrivania, un divano, una culla foderata di pizzi bianchi ed una carrozzina stile inglese con dentro un orsacchiotto. In un angolo c’era un tavolo rotondo con delle sedie. Era la stanza dell'incontro con i genitori e lungo il corridoio che avevamo percorso per arrivarci c’erano centinaia di fotografie dei bambini adottati, ritratti nella loro camera da letto, o in braccio ai genitori, in piscina o a cavallo, nel giorno della loro prima comunione, della laurea o addirittura il giorno del matrimonio. Noi ci eravamo portati i pupazzetti che avevo scelto per ciascuna di loro, cercando di immaginare i loro gusti basandomi sulla lettura della loro storia contenuta nei rapporti informativi, e sulle fotografie che ci avevano trasmesso via mail.
Mi ero preparata una specie di discorso da fare alla più grande e mi ripetevo che non avrei dovuto piangere, altrimenti avrebbero pensato che non ero contenta di vederle. Invece mi sentivo la donna più felice sulla faccia della terra. Si affacciarono sulla porta, dopo un’attesa di più di un’ora, spingendo la sedia a rotelle su cui era seduta la direttrice della Casa de la Madre y del Niño.
Erano bellissime e tenere e da subito cominciarono a sgusciare dai nostri abbracci per infilarsi nella culla e giocare con l’orsetto e la carrozzina. A stento riuscii a consegnare a ciascuna di loro il mio regalo. A Fanny avevo comprato una piccola giraffa, che si è persa subito. Credo che la abbia lasciata lì, regalata a qualche compagna. Indossavano dei vestitini di velluto verde con il corpino ricamato di bianco a punto smock ed il collettino di millerighi bianco. Calze bianche e scarpe di vernice. I capelli erano acconciati con dei codini alti legati con dei grandi fiocchi di un nastro bianco alto.
Ho pensato subito ma come cazzo me le hanno conciate, sembrano delle bambole.
Dopo un poco Fanny mi ha chiesto come mi chiamavo ed il nome di suo padre. Io l’ho portata vicino al tavolo, mi sono seduta di fronte a lei e tenendole le mani nelle mie le ho detto nel mio spagnolo improprio, che avevo studiato la sua lingua perché volevo parlare con lei e le chiedevo di aiutarmi se non riuscivo a farmi capire da lei e dalle sue sorelle.
Mentre le piccole saltavano a destra ed a sinistra, firmammo alcuni documenti e senza voltarci indietro lasciammo la loro ultima casa, per incontrare il primo dei giudici colombiani. Le piccole, che non avevamo mai viaggiato in macchina, vomitarono la colazione. Così scoprii che avevano mangiato uova, cioccolata e bevuto del succo di frutta.
Ci presentammo al giudice in pessime condizioni. Dopo esserci ripulite nel bagno alla bell’e meglio, puzzavamo ancora, i nastri dei codini si erano sciolti, i vestini erano pieni di macchie scure. Ci chiese se andava tutto bene e se eravamo contenti. Le piccole non stavano ferme un attimo, avevano scoperto che nel cortile c’era un perro, un cane e cercavano di scavalcare la finestra per raggiungerlo. A lei piacemmo, già ci trovava affiatati e certo le bambine non sembravano rifiutarci. Avevamo superato la prima prova, quindi si poteva andare avanti.
Le salutò con un bacio. Augurò loro un mondo di bene. E buona fortuna con i vostri genitori.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Le tue storie sono sempre intense. E si ha la voglia di sapere il poi. Che mamma!
Baci
M. Cristina

Anonimo ha detto...

già,che mamma e che bambine fortunate.

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