martedì 16 giugno 2009

Estremamente



Nives Meroi: ho rinunciato al dodicesimo Ottomila per non lasciar solo Romano
Fonte / Autore: Il giornale del friuli
a cura di Antonella Passoni


A Montegnacco, dove tiene la sua conferenza stampa dopo il ritorno dal Kanchenjunga, Nostra Signora degli Ottomila è sola. Romano sta facendo degli esami clinici per capire che cosa gli sia capitato al Campo 3, e Nives siede al tavolo dei relatori con la sorella Leila, e Giuseppe e Stefano Petris, padre e figlio, i patròn del prosciuttificio di Sauris sponsor della spedizione. Una separazione meramente formale dalla platea: in realtà si tratta di un incontro tra amici, quasi una rimpatriata. C’era un progetto impegnativo, salire due delle tre montagne che ancora mancano, nel rosario dei 14 Ottomila. Ma nel cielo dell’alpinismo si è deciso diversamente.

«Pensavano di cominciare con il Kanchenjunga, e di raggiungere poi l’Annapurna», racconta l’alpinista tarvisiana. «Ma a marzo, quando siamo arrivati a Katmandu, abbiamo scoperto che, malgrado l’instaurazione della democrazia, alcuni gruppi maoisti continuavano a bloccare le strade, specie nel Nord-Est. «Lo fanno sempre, prima dei monsoni, andate all’Annapurna, poi, quando tornerete, agitazioni e scioperi probabilmente saranno finiti», ci ha detto Nima, il nostro agente in Nepal. «Abbiamo seguito il suo consiglio, tornando al monte che ci aveva già respinti nel 2006, sul versante Nord, quello dei francesi. La via è molto rischiosa, perché per due o tre giorni si sale sotto una fascia di seracchi a quota 7000», prosegue Nives. «Per ridurre il rischio di crolli, Romano, Luca Vuerich ed io eravamo partiti la notte: alle 6 del mattino, con un boato, è partita una parte della “falce” - come, con sinistra allusione, viene chiamata la seraccata. Su un conoide di neve, fuori tiro, siamo rimasti ad ammirare migliaia e migliaia di metri cubi di ghiaccio che scendevano dalla parete. Poi parte della cascata ha sbattuto contro un risalto e ha cambiato direzione, dirigendosi verso di noi. Luca si è messo a scappare - per quanto lo si possa fare a più di 6000 metri, nelle neve alta, e con uno zaino pesantissimo. Romano ed io ci siamo inginocchiati, mettendo gli zaini sulla testa». «Sembrava la fine, ma l’Annapurna ci ha graziati: un altro rimbalzo, e la massa ci è passata sopra, coprendoci solo con un soffio di neve. Non sono occorse parole: uno sguardo, e siamo scesi, recandoci poi a render grazie all’altare della “dea madre delle messi”, come i locali chiamano il monte».
«Edotti dall’esperienza, stavolta avevamo scelto la via Humar, a sud, tecnicamente più impegnativa, ma anche più sicura. Ma le condizioni erano pessime: causa un inverno scarso di precipitazioni, l’icefall, zona di seracchi e crepacci, si sfasciava ogni giorno. Una volta i crolli hanno tanto alterato la fisionomia della zona, che non sapevamo ritrovare la tenda», racconta ancora la Meroi. «Poi Romano si è ammalato. Sulla base dei sintomi, via satellitare, Leila ha diagnosticato una bronchite e prescritto una terapia antibiotica. Sperando che si rimettesse, siamo tornati a Katmandu, per raggiungere poi il Kanchenjunga». «Probabilmente la cura, a più di 5000 metri, non ha funzionato. Il 3 maggio siamo arrivati al Campo Base, e di lì siamo saliti sino al Campo 3, a quota 7300 dove siamo stati fermi un giorno causa il vento, e il giorno dopo siamo partiti per il Campo 4, 7700 metri, con l’idea di tentare la cima il giorno successivo», continua Nives. «Le condizioni meteo erano buone, ma Romano andava sempre più lentamente. “Sei sicuro di voler proseguire? Vuoi che scendiamo?”, continuavo a chiedergli. Lui, cocciuto, insisteva. Poi, a 7500 metri, mi ha fatto un segno con la mano: non ce la faceva più».
«Abbiamo tenuto un breve consiglio di spedizione e di famiglia. “Pian piano posso arrivare al campo. Da lì tu fai la cima e io ti aspetto”, ha detto Romano. In momenti così si scatena una ridda di emozioni e di pensieri: la vetta sembrava vicina, ma alla fine ho deciso di rinunciare anch’io. Per due ragioni: la prima è che, anche se al momento i test medici facevano escludere l’edema o altri problemi seri, verso gli 8000 metri i malesseri fanno presto ad aggravarsi. Non me la sentivo di tentare senza sapere in che condizioni lo avrei ritrovato». «Poi c’era anche un’altra cosa. Tutte le grandi cime le ho salite assieme a Romano. C’è un percorso iniziato assieme, con le prima salite, poi portato in Himalaya e compiuto in due, passo passo, condividendo ogni esperienza. Avrei potuto tentare il mio 12 Ottomila, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Così, serenamente, ho scelto di scendere assieme a Romano». Ha perso il primato Nives: le sue due challenger sono riuscite a “fare” ancora una cima: Gerlinde Kaltenbrunnen il Lhotse, Edurne Pasaban proprio il Kanchenjunga. La basca ha dovuto fare ricorso all’ossigeno, e ha riportato gravi congelamenti; una spedizione è dovuta salire ad aiutarla, altrimenti avrebbe rischiato di rimanere lassù. Nives, con Romano, è scesa. Al momento non è più la “donna più alta”, in metri. Lo è per umanità.

2 commenti:

Maddalena ha detto...

Trovo commovente questa "rinuncia" soprattutto fatta nel mondo di oggi. Ha un sapore antico. Però non riesco a non essere cinica, un uomo l'avrebbe fatto?

Anonimo ha detto...

..veramente mi sono fatta la stessa domanda...a questo punto credo che la risposta sia scontata:):)
antonella

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