martedì 8 aprile 2008

LA DOLCE VITA DI LUDOVICA


DALLA DOLCE VITA A MILANO CAPITALE DELLA MODA
A cura di Ludovica Falconi


..la Moda procede verso cose piccole, a differenza dei giganteschi brontosauri, arcosauri, fitosauri e tirannosauri creativi del passato, delle voluminose, vaste, ingombranti ampiezze- ovviamente non solo volumetriche, più propriamente concettuali e ideali.. (Quirino Conti)

C’ è il tempo in cui nascono le idee, quelle che assorbono dal passato, sanno rubare dal presente e quelle che cambieranno il futuro.
Gli anni ’70 hanno consacrato l’ Italia a patria della moda, fonte inesauribile di creatività dove tutte le migliori energie procedevano decise insieme, ognuna con la propria identità creando, forse inconsapevolmente, il fenomeno del Made in Italy.
Tutto era nuovo e fecondo, c’ era la voglia di creare qualcosa di diverso e anche la consapevolezza di poterlo fare, come a voler restituire al nostro paese il favore di averci accolto nella culla delle sue rovine, nel grembo della sua ineguagliabile bellezza.



Quando il termine stilista non esisteva ancora, la supremazia della moda parigina e della sua haute couture era indiscussa e la visione che gli altri paesi avevano dell’Italia era relegata alle atmosfere neorealiste dei film di Fellini, qualcosa iniziò a cambiare, fu un processo spontaneo dove ognuno sembrava sapesse quale fosse il suo ruolo.
Il successo del made in italy è dovuto a quell’insieme di forze che agirono sinergicamente creando quello che conosciamo ora come Italian Style: dalla fibra al tessuto più innovativo, dalla passerella alla pubblicità, dai rapporti con i compratori a quelli con i giornalisti.
Milano diventò così la capitale mondiale della moda. “Un caos che si auto-organizza fatto da aziende che si sono plasmate sulle nuove opportunità che esse stesse inducevano interagendo in tempo reale con la realtà in cambiamento” direbbe Andrea Branzi.
I nostri distretti industriali potevano già vantare una tradizione di grande artigianalità per quanto riguarda la produzione dei tessuti: Biella per la lana, Como per la seta e Prato per la rigenerazione della lana mentre Toscana e Marche per quanto riguarda la pelletteria e le calzature.
Queste aziende già importavano anche all’estero ma fino a quel momento era mancata una sinergia che permettesse di rendere grande il nome dell’Italia nel mondo. Tutti gli anelli della filiera erano pronti per il salto di qualità.
Se negli anni ‘40 il nostro proverbiale senso d’adattamento si era fatto vedere con gli autarchici plateau in sughero di Ferravamo e con gli sforzi che le donne durante la guerra dovettero fare per non sprecare neanche un pezzettino di stoffa, furono,invece, i progressi tecnologici a carattere il settore tessile italiano del periodo postbellico.
Durante gli anni ’50 Roma e la sua Dolce Vita avevano affascinato e fatto sognare con gli abiti delle sorelle Fontana, di Schubert e di Cappucci. Le rive del Tevere ed i fasti della Roma imperiale fecero da cornice a questa alta moda nascente e fu un po’ come l’ossessione per la città eterna che investì gli artisti rinascimentali agli inizi del ‘400.
Da Roma l’attenzione si spostò a Firenze, fino alla metà degli anni ’60, nella Sala Bianca di palazzo Pitti, dove, con le prime sfilate collettive, esordirono nomi come Pucci, Valentino, Missoni e Krizia assistendo alle prove generali di quello che, solo negli anni ’80, prese il nome di Made in Italy.
Dal ‘61 al ‘76 le esportazioni del settore sono cresciute costantemente e nel ’70 l’Italia deteneva la più alta quota di esportazioni d’abbigliamento rispetto agli altri paesi industrializzati.
Non si trattava più di alta moda ma di boutique di lusso, non più capi unici ma abiti prodotti secondo le necessità dei buyers internazionali che accolsero con entusiasmo l’iniziativa di Giovanni Battista Giorgini, ideatore delle sfilate fiorentine e precursore delle nuove esigenze di mercato.
Era l’industria, infatti, il futuro della moda e, se la figura dello stilista si sarebbe sostituita a quella del couturier, l’ immagine del marchio sarebbe diventato il fulcro dei processi di vendita.
Fu Walter Albini il pioniere di questo nuovo concetto, il maestro del total look intuì l’importanza di uno stilyng che non tralasciava nessun particolare, disegnava dagli orecchini alle scarpe, tutto era coerente ed era espressione di uno stile ben preciso.
Fu tra i primi a spostarsi da Firenze a Milano disegnando sia l’alta moda che confezione, intuì l’importanza del rapporto con i produttori di tessuti e fu il primo stilista-mecenate che disegnerà per cinque diverse case di moda contemporaneamente.
Nulla che non fosse già in embrione, seguì infatti il successo che il design italiano stava ottenendo
dalla metà degli anni ’60.
Il ’78 si può definire la data ufficiale della nascita del made in Italy, o meglio ‘made in Milan’.
Le sfilate di pret-a-porter milanesi organizzate da Beppe Modenese per la rassegna Modit, l’attuale Milano Collezioni, videro l’affermarsi di nomi che ora ci invidiano in tutto il mondo.
La proposta diventò così più ampia e fu in grado di accontentare tutte le fasce di mercato, riempiendo le nicchie ancora inesplorate.
Giorgio Armani, Gianni Versace e Gianfranco Ferrè furono la triade di nuove leve che, unendosi a nomi già conosciuti, divenirono i protagonisti indiscussi delle passerelle e del nuovo concetto di moda.
L’immagine del marchio e le strategie di marketing diventano così il cruccio di ogni stilista, la comunicazione diventa il punto da cui partire, le campagne pubblicitarie di Oliviero Toscani per Benetton e le provocazioni di Elio Fiorucci ne sono un esempio.
Armani con le sue giacche destrutturate creò un nuovo concetto di bellezza informale mentre, al contrario, Versace raccontò una sfacciata sensualità fatta colori accecanti e tessuti improbabili, l’ex architetto Ferrè, poi, costruì i volumi dei suoi abiti come fossero gli edifici che disegnava prima di approdare alla moda.
Iniziò la lotta per accaparrarsi il fotografo più in voga e realizzare la campagna pubblicitaria più accattivante mentre la carta stampata iniziò ad interessarsi sempre di più a questo settore in continua evoluzione, le sfilate diventarono dei veri e propri happening mentre le modelle come Naomi Campbell, Claudia Shiffer e Linda Evangelista furono consacrate come le nuove icone degli anni ’80.
Il mondo del cinema e della musica seguirono la spontanea propensione che li spingeva verso il nuovo totalizzante diktat estetico italiano, mentre i nostri stilisti diventarono delle vere e proprie star. La moda diventò uno stile di vita.
E poi arrivarono Moschino, Dolce & Gabbana, Gucci e Prada: ma questa è un'altra storia.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ma secondo te oggi si può parlare ancora di moda?

Sandra

Ludovica ha detto...

La moda esite, esisterà sempre. Quella che resiste prenderà il nome di costume, e comunque, in genere, le mode rispecchiano quello che l'umanità è in quel preciso momento. La moda non riguarda solo gli abiti ma tutti gli ambiti in cui agisce l'uomo. La moda è la corrente che ci traghetta e che preannuncia quello che sarà..

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