L’estasi dell’artista
Si racconta che Nicolò Paganini, durante le improvvisazioni, usasse premere le corde del violino con veemenza, tale da recidere di frequente i polpastrelli, sebbene la pratica quotidiana ne avesse dotato le estremità delle dita di duri e secchi calli. Paganini, il Virtuoso. Egli era solito esercitarsi per più di dodici ore al giorno. Quell’esercizio quotidiano aveva conferito vigore alla sua tecnica artistica, tale da renderne l’esecuzione veloce e vivace, ravvivata da slanci di diverse ottave; e dall’utilizzo frequente dell’armonico artificiale, tecnica complessa che conduceva alla conclusione delle sue esecuzioni con la rottura, intenzionale e progressiva delle corde. Soltanto il Sol ne rimaneva superstite.
Il rapporto fra un artista e la sua armonia è un fatto di libertà. Di trasporto. Di passione, nelle sue accezioni più estreme.
Perché passione è provare. Sperimentazione, tensione all’infinito. E passione è patire: la fatica e la corporea sofferenza, dettate dall’esecuzione protratta.
Aristotele fra i primi ha scritto del pathos come alterazione dell’anima, leva sui sentimenti del corpo. E, ancora oggi, sono in molti a proclamare la fisicità fra l’artista e la propria musica. Quella fisicità passionale che, talvolta esacerbata, si configura con la morte.
Sul calare degli anni Sessanta, Jimi Hendrix concluse la sua esibizione al Monterey Pop Festival con l’incendio e la distruzione della sua Stratocaster. La chitarra agonizzante di Hendrix non è soltanto un grido di ribellione; ma soprattutto il culmine di un amplesso, l’acme parossistica di un crescendo, fatto di suoni elettrici, ottenuti mordendo, palpando la chitarra, strofinandone le corde contro se stesso e la realtà esterna.
Al termine di quel celebre concerto Hendrix, il Perfezionista, versò dell’alcol sull’iridata Stratocaster, per poi inginocchiarsi di fronte a essa. Come per succhiarne l’essenza. Come per asserire, la musica eterna, nella sua immanenza.
Come un urlo silenzioso. La musica, nella morte pulsante.
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